La scuola può “pensare il digitale”. L’emergenza spinge la ricerca didattica

Quello che la scuola e le famiglie hanno messo in atto in questo periodo di chiusura degli edifici scolastici è stato chiamato “didattica a distanza” o “didattica digitale”. Queste diciture sono semplificative. E un po’ fuorvianti. Oltretutto sono state strumentalizzate da un dibattito pubblico polarizzante. Si va da un clima di autoesaltazione del lavoro fatto della scuola alla completa delusione e senso di fallimento di tutta la didattica di questi mesi.
Diciamo allora, in maniera più neutra, che questa situazione ha portato a usare degli strumenti digitali in una condizione di “diversa presenza”.
La didattica a distanza esisteva già prima; l’esempio più grezzo sono i famosi “compiti dell’estate”. I vari libri delle vacanze sono stati per tutti noi una forma di didattica a distanza. Qualcosa si imparava e personalmente ricordo ancora con quelle ultime pagine dedicate ai piccoli lavori manuali in cui con forbici e colla si ottenevano modelli tridimensionali di casette, automobili o solidi geometrici.
Inoltre la didattica a distanza ha sviluppato processi e modelli, grazie alle tecnologie, ben prima del Covid.
Nel lavoro a casa, spesso, veniva assegnato il compito di guardare un video, ascoltare un podcast o seguire un webinar (corso online). L’idea centrale ha un suo fondamento pedagogico nella logica di continuità spazio-temporale dei momenti di apprendimento tra scuola e casa. In questo filone possiamo ritrovare le tecniche di classe “rovesciata” (flipped classroom). Lo schema tradizionale, per intenderci, è “spiegazione in classe – studio a casa esercizi – verifica”; qui invece si può pensare che, su particolari temi, possa funzionare meglio una spiegazione acquisita in autonomia a partire da materiale prima divulgativo, semplice, che può aiutare a cogliere l’argomento nel contesto più ampio; e poi in classe, procedendo alla sintesi. In classe si può procedere a una ripresa teorica parziale, a una esercitazione o un laboratorio.
In questo processo, che è solo uno degli esempi di una ricerca didattica già avanzata, (suggerisco a tal proposito i lavori della rivista “Essere A Scuola”, Morcelliana, diretta da Cesare Rivoltella) si sono colte le nuove tecnologie come opportunità e come strumento; come ogni strumento (il monito “Medium is the message” di Mcluhan incombe sempre) anche le nuove tecnologie presentano dei limiti che vanno conosciuti e che entrano a far parte del lavoro pedagogico della scuola che pensa, vede e rivedere le sue intenzionalità didattiche ed educative.
Per questo dico che valutare un mondo così articolato e complesso a partire dall’utilizzo che se n’è potuto fare in tempo di emergenza, sarebbe come domandarsi se un’ambulanza può essere un mezzo comodo per viaggiare tutti i giorni: direi di no; ma non per questo demonizziamo il mezzo di soccorso!
La “didattica digitale” è una definizione sbagliata. Lo era già prima delle emergenze e rischia di esserlo ancora di più ora. Questo per due motivi.
Il primo, il più ampio, di carattere generale, riguarda la rivoluzione digitale in sé: la “Quarta rivoluzione”.
Il tema del digitale deve entrare nella scuola a prescindere: perché è un fatto decisivo. In tal senso, ricordo anche di aver letto un’analisi molto lucida e critica totalmente condivisibile che dice che “la dematerializzazione (pensiamo alle relazioni sui social) altro non è che l’estremo colpo di coda del materialismo”. La scuola è il luogo giusto per “pensare il digitale” e non solo “pensare in digitale”. Certo, non basta dare alla scuola il compito di censurare gli abusi di utilizzo delle tecnologie digitali: è utile, va fatto, ma non basta. La digitalizzazione ha introdotto un cambiamento antropologico e la scuola, che si occupa di formare persone (“teste benfatte e non teste ben piene”), non può confinare questo evento entro studi specifici (tecnici).
Il secondo motivo è di carattere particolare ed è relativo a questo periodo. I nostri ragazzi, per quanto abbiano apprezzato attraverso le piattaforme mediali la possibilità di continuare a studiare e di tenere anche un minimo di socialità e di orientamento disciplinare dall’agenda quotidiana, sono però ora stanchi e cominciano ad avere una reazione di rigetto verso la scuola fatta esclusivamente in rete.
I sondaggi condotti in questo momento sono condizionati da questa stanchezza.
Credo allora che occorra un discernimento profondo e misurato, affidato a valutazioni compiute da tutte le componenti della scuola, sulla base di dati e riscontri, di evidenze ma anche di racconti. Lo studio di questi mesi…richiederà mesi.
Diciamo però che se non ci fosse stato lo strumento digitale avremmo perso completamente un anno di scuola. Questa sarebbe stata la situazione anche solo di 5 anni fa. Un’alternativa ben più drammatica, a mio parere.
Parliamo anche di distanza.
“Didattica a distanza” è un termine molto relativo. In questi mesi ho notato che come scuola siamo entrati nelle case dei nostri ragazzi e delle loro famiglie. Al netto della conoscenza di gattini, cagnolini e parenti vari, abbiamo raccolto invece sentimenti, emozioni… talvolta sofferenze profonde.
Ci sono stati momenti di profonda condivisione. Ci è stato possibile essere un luogo (o non-luogo in senso utopico) di grande “prossimità”. Date le condizioni (e discuterne ora è inutile) si sono aperte possibilità. Questo è avvenuto perché la scuola non è uno strumento di erogazione di servizi formativi: la scuola è un’esperienza umana.
È su questa consapevolezza (che poi si traduce nei Ptof, nelle dichiarazioni d’intenti) che si costruisce la differenza tra scuola e non scuola. Ed è lavorando sul tema dell’umanità, del “cosa significa essere persona” che poi si strutturano veri elementi di resilienza (cioè di migliore adattamento ai cambiamenti). Cambiano le situazioni e i contesti, spesso anche in maniera drammatica, come abbiamo visto. Quello che non cambia è il fatto di dover dare una risposta “umana” al vissuto. Non si tratta solo dell’interpretazione dei fatti, non è una questione di ideologie; è una questione di prospettive. La vita (credo lo dicesse Seneca) non è quello che ti accade ma quello che decidi di fare di ciò che ti accade.
Mi viene da pensare che la questione digitale, quella ambientale, la questione dell’uomo e del dominio dell’economia sulla antropologia non potranno essere questioni secondarie anche dentro i tempi della progettazione della ripartenza. Si scatenerà il dibattito sull’utilizzo degli spazi, sulle mascherine, sui “gel”, sulle feste di compleanno a scuola, sull’interrogazione “alla cattedra”, sugli ingressi differenziati. Ma quello che invece dovrebbe scatenarsi è la domanda su che tipo uomo e donna, bambino e bambina, maestro e maestra è quello che abbiamo vissuto in questo periodo. Che cosa la fragilità toccata (anzi dolorosamente sottratta al tatto) ci ha insegnato di noi? E in che modo questo va a ridefinire i contenuti (magari parlare della “Laudato sì” non sarà solo un problema degli insegnanti di religione) ma anche i metodi, i rapporti tra di noi, i nostri ruoli.
Come ridefiniremo le nostre simboliche? Faccio un esempio simpatico. Andare a scuola è un atteggiamento simbolico, rituale. Non ci si va…in pigiama. Nei primi giorni della didattica fatta con strumenti mediali veniva naturale ai bimbi più piccoli (quelli più grandi spegnevano la telecamera) di presentarsi ancora in pigiama. Erano nella loro stanza, sulla faccia ancora qualche briciola di biscotto… che male c’era? Oltretutto i piccolini in pigiama facevano grande tenerezza anche alle loro maestre. A una di queste maestre è venuta un’idea: facciamo la prima ora di “pigiama on-line”. Una sorta di “pigiama party” scolastico (che mai si sarebbe potuto fare). Tutti sono stati chiamati a raccontare del loro pigiamino, del loro peluche, dei riti della nanna e della sveglia (e quante cose abbiamo anche capito dei nostri bambini!). Un’ora molto bella. Poi, tutti a cambiarsi, “perché adesso comincia la scuola”. Da quel giorno i bambini si sono sempre presentati vestiti a dovere e non in pigiama.
I riti sono importanti, i simboli sono importanti. Abbiamo davvero tante cose preziose di cui occuparci. Avremo tempo anche di recuperare qualche contenuto che, per forza, “non è la stessa cosa che se fosse fatto a scuola”.
Ma quante altre cose, per il fatto che non saranno vissute come scontate o date per sicure, ci permetteranno di pensare, di riflettere, di far emergere quale tipo di persona vogliamo sia la persona del futuro, della società del domani.
L’ultima parola sulla “didattica di prossimità” (permettetemi di chiamarla così, almeno come sogno) la voglio spendere; pensandola, oltre che prevedibilmente ancora per un po’ in termini di necessità, anche in termini di “sfida”. C’è un legame stretto tra l’uso degli strumenti digitali a scuola e il processo di riforma e innovazione del sistema paese in termini di digitalizzazione. Lo dico in positivo pensando a quanti benefici può portare una seria alfabetizzazione digitale (per esempio evitando code inutili e rischiose per ritirare referti medici che possiamo trovare sul nostro fascicolo digitale; oppure di come possiamo, con consapevolezza, offrire e gestire dati per la ricerca scientifica attraverso i nostri telefoni). C’è un legame anche tra la didattica “tradizionale” e quella “digitale” che non è una partita ad esclusione; ci siamo accorti quanto è preziosa una maestra in carne e ossa dove però “carne e ossa” sono le distanze e le vicinanze, le parole e i silenzi, i riti e le fragilità, la severità e il rigore anche, l’essere adulto, l’essere e l’avere.
C’è anche un legame di opportunità, di apertura al mondo (che non sappiamo bene come e quando ritroveremo in senso geografico); seguire un corso di un’altra scuola, partecipare ad un approfondimento in lingua, confrontarsi con la visione dei fatti con uno studente di un altro continente. Tutto a piccole dosi, naturalmente perché ci auguriamo che i nostri ragazzi possano inventare nuovi giochi (a prova di norma di sicurezza) e uscire dalla stanza col computer.

Don Luciano Manenti
rettore degli istituti della Fondazione Opera Sant’Alessandro