Come superare il dolore dopo i lutti dovuti al Covid-19. Intervista al filosofo Salvatore Natoli

“Un convoglio del dolore” è l’immagine di ciò che ha causato in Italia la pandemia da Covid-19 che finora nel nostro Paese ha ucciso quasi 35mila connazionali. Un’immagine straziante, che mai avremmo pensato di vedere: il 18 marzo a Bergamo i camion dell’esercito trasformati in carri funebri hanno iniziato a portare fuori Regione i morti da Coronavirus. Il forno crematorio della città non bastava più.


Padri, madri, nonni e nonne, privati degli affetti più cari, sono morti soli, nelle terapie intensive degli ospedali della provincia bergamasca e non solo, confortati dalla “pietas” degli infermieri e del personale sanitario.
Non poter dire addio ai propri cari è un lutto nel lutto, che causa un dolore che sembra insanabile. Ne parliamo con il filosofo Salvatore Natoli, nato a Patti nel 1942, che ha insegnato filosofia teoretica presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Milano Bicocca.


Il lutto e il dolore conseguente hanno una loro normalità e un loro decorso. La recente emergenza causata dal coronavirus, però, ha fatto sì che tale normalità sia stata alterata, ci siamo tutti riscoperti più fragili di quanto potessimo pensare. Com’è cambiata l’esperienza del lutto e del dolore in questi ultimi mesi?


«È cambiata completamente. La caratteristica dell’epidemia, come in tutte le grandi epidemie della Storia è stata quella della dimensione di strage collettiva, questa dimensione falcidiante della morte che in questo caso è anonima. Quando vi sono delle vite che vengono stroncate all’improvviso o dopo una lunga malattia, c’è pur sempre il tempo dell’elaborazione del lutto e del sentimento della perdita. In una situazione di questo genere soprattutto a livello sociale complessivo si percepisce la fragilità degli uomini. Quando avvengono le pandemie la morte taglia anonimamente. Il contagio può prendere chiunque e questo è un fatto traumatico, perché, mettiamola in questi termini, la morte non ha un suo tempo. Irrompe. E questo diventa traumatico non solo per quelli che si ammalano, ma anche per quelli che temono di ammalarsi. La morte diventa un incubo collettivo. Una delle ragioni per cui il lockdown ha funzionato è stato il meccanismo della paura, è scattato anche il meccanismo della responsabilità, ma fondamentalmente ha vinto il meccanismo della paura. Fin quando si diceva che era un’influenza, nella dimensione di incertezza la gente non aveva preso sul serio il virus venuto dalla Cina. A Bergamo il Covid-19 all’inizio non l’hanno preso sul serio né le Istituzioni né le imprese. La tradizione bergamasca dei lavoratori indefessi, in questo caso ha giocato contro, non si sono saputi fermare. Più che un fatto epidemico, in questo caso parliamo più di un’antropologia locale, di una certa cultura. Poi quando i morti sono cominciati a salire è scattato il meccanismo della paura. Il lockdown è stato accettato, perché si è capito che era l’unico modo per poter essere meno esposti a quella falce. Ecco perché parlo di un grande trauma collettivo».


Il fatto che siano venuti a mancare riti di passaggio fondamentali per la nostra cultura come il funerale, ha creato una serie di problemi psicologici nuovi. Per esempio, alcune persone sentono che il loro parente non sia scomparso, perché non hanno avuto modo di salutarlo. In questo caso, come riuscire a sfogare il dolore per la perdita?


«Il dolore non lo si può sfogare. Lo sfogo è momentaneo. Per usare un’espressione freudiana, il dolore lo si elabora. Bisogna sempre elaborare ciò che si è perduto. Serve tempo, immediatamente quando c’è lo strappo, c’è la ferita e si sente tutto perduto. Ci si sente colpiti, indeboliti, afflitti. Bisogna smaltire questa dimensione e per farlo occorre tempo. Un tempo nel quale noi siamo capaci di raccogliere il passato, dove ci accorgiamo che la persona cara che non c’è più con tutto quello che ci ha donato, resta con noi. I morti immediatamente si allontanano ma con il tempo ritornano. Non solo, ritornano per essere giudicati da noi, e non deve essere necessariamente un giudizio di condanna, anzi. I nostri morti tornano, e nella calma vengono valutati, un processo lungo, perché subito dopo la morte delle persone care subiamo una lacerazione».


È vero che i dolori personali, se raccontati, si attenuano per diventare a poco a poco, esperienza di crescita emotiva?


«Qualsiasi dolore se giunge alla parola, può essere vissuto. Se non giunge alla parola ti uccide. I due estremi del dolore sono, il grido o il silenzio. O si resta annichiliti o si grida con disperazione. In entrambi i casi il dolore uccide, nel mutismo ci si chiude e si rischia l’inedia, nella disperazione, nell’urlo, alla lunga si rischia di impazzire. Soltanto se giunge alla parola, il dolore è vivibile, altrimenti ammazza. La parola consola, perché sviluppa una dinamica di confidenza con l’altro».

La tragica situazione di emergenza legata al coronavirus avrà conseguenze psicologiche anche a lungo termine, considerato che tutti noi abbiamo sperimentato una sorta di lutto per quello che abbiamo perso. Possiamo parlare di ferita e perciò di dolore collettivo?


«Sì, dinanzi a una strage collettiva c’è una risposta collettiva. È stata straziante come immagine questo modo anonimo con cui i defunti sono stati portati nei camion a Bergamo. Non c’era più la parola, non c’era più la confidenza, non c’era più la comunità. Uomini e donne ridotti a cose, a ceneri, ha colpito la Nazione intera. Quando il lockdown è finito, la voglia delle persone di uscire, di vivere, è tornata impetuosa. Quindi anche i traumi più spaventosi vengono dimenticati, almeno da tutti quelli che non sono stati toccati direttamente, non si trae lezione da questo».


Non abbiamo mai vissuto una situazione umana così dura dal punto di vista psicologico, in specie le giovani generazioni, che non hanno subito le conseguenze di una guerra o di una forte pestilenza. A fine emergenza, sarà difficile ritornare alla vita di sempre, a quando eravamo felici e non ce ne rendevamo conto?


«Ritengo che dopo un evento di questo genere alla vita di sempre non si torna, soprattutto tutte quelle persone che hanno patito perdite. Quelle persone resteranno segnate a vita. Le cose cambiano ma non ha a che fare con la dimensione pratica, questa situazione forzata ha prodotto diversi comportamenti. Per esempio il sistema dei servizi, del lavoro, il telelavoro, esisteva già prima, il virus da fenomeno minoritario l’ha fatto diventare fenomeno collettivo. Quindi il Covid – 19 ha accelerato dei processi. Cambiano quindi i modi del lavoro, cambia il sistema di vita, e queste sono cause indirette del virus, come la forte disoccupazione e la crisi economica (è una traccia pesante che ci lascia il coronavirus) dalla quale sarà difficile uscirne e dove saranno i giovani che sentono la difficoltà di assembrarsi, perché non hanno perso la voglia, a pagare il prezzo più alto. L’evento come tale viene assorbito».