Giovanni Albano racconta “I giorni più bui” a Bergamo: “L’epidemia ci ha colti di sorpresa”

Un libro ripercorre la diffusione del coronavirus a Bergamo

Durante il lockdown causato dall’emergenza coronavirus, per 60 milioni di italiani costretti a vivere all’interno della mura domestiche, c’era un appuntamento irrinunciabile. Stiamo parlando della conferenza stampa quotidiana delle ore 18 dalla sede romana della Protezione Civile, dove il Capo dipartimento Angelo Borrelli stilava il triste elenco dei nuovi contagiati, dei malati nelle terapie intensive, dei decessi e di chi era guarito dal Covid-19. Dati asettici, per forza di cose, ma è logico che il nostro pensiero andasse alle corsie degli ospedali, a tutto il personale sanitario, che si trovava in trincea a combattere un nemico invisibile e ostinato. 

Quello che è accaduto in quei drammatici giorni lo racconta nel saggio “I giorni più bui” (Piemme 2020, Collana “Molecole”, ebook €2,99), in prima persona Giovanni Albano, da noi intervistato, da sei anni responsabile del servizio di anestesia di Humanitas Gavazzeni a Bergamo, raccogliendo anche la storia di Giorgio, uno dei primi malati Covid-19 della zona orobica. 

“In Italia è arrivato il paziente zero. Dopo due turisti cinesi a Roma, un giovane uomo è risultato positivo al nuovo virus Sars-Cov-2 a Codogno”. Professor Albano, dove si trovava verso la fine dello scorso mese di febbraio quando ha scoperto che il virus era sbarcato a cinquanta chilometri da dove vive? 

«Mi trovavo in vacanza, in Germania, a Monaco di Baviera, insieme a mia moglie e a una coppia di amici, avevo preso una settimana di ferie. Leggendo il sito del “Corriere della Sera, mi sono accorto di quello che stava accadendo in Italia. Già si sapeva della situazione in Cina, in quei giorni prima è venuto fuori il paziente zero di Codogno, e dopo qualche giorno c’è stato il primo ingresso all’Humanitas Gavazzeni. Quando mi trovavo in Germania non ho percepito la gravità e la diffusione del contagio. Tutto è cambiato una volta che sono tornato in Italia».

“Ma stavolta è diverso, perché questa malattia coglie tutti di sorpresa”. Si è reso subito conto che la situazione in ospedale era molto seria e che eravamo solo all’inizio dei giorni più bui? 

«Sì, la consapevolezza di ciò che stava succedendo l’ho avuta quando sono rientrato al lavoro, gli ingressi dei pazienti in ospedale avvenivano con una cadenza rapidissima. Allora ho capito che eravamo di fronte a una situazione travolgente, che stavamo assistendo a una vera e propria epidemia. Sono tornato al lavoro l’ultimo weekend di febbraio, è stata convocata l’unità di crisi nel nostro ospedale e lì mi sono trovato a prendere coscienza in maniera completa del dramma. Soprattutto perché il rumore delle sirene delle ambulanze era continuo, i primi giorni era un via vai di arrivi di pazienti gravi al Pronto Soccorso. Nelle settimane successive abbiamo assistito a un crescendo continuo, siamo arrivati ad avere contemporaneamente 30/40 codici rosso al Pronto Soccorso, persone che subito avevano la necessità di essere aiutate, soccorse».  

Ha visto i confini della sofferenza più disumana, ha conosciuto la paura dell’abbandono e del distacco dagli affetti più cari e ha temuto per la Sua vita. Questa esperienza che cosa Le ha insegnato? 

«Da questa tremenda esperienza si può trarre qualcosa di buono. Probabilmente chi non ha visto con i propri occhi, ha difficoltà a capire cosa è veramente successo. Noto che la gente, anche per un naturale istinto di conservazione, tende ad allontanare e a dimenticare la pandemia, che peraltro è sempre presente nel nostro Paese. Quelli che hanno visto gli effetti del Covid-19, ovviamente non potranno dimenticare nulla. Si aveva allora la sensazione che il mondo stesse per finire. C’era sopra tutti noi, che finora ci eravamo illusi di essere super protetti, una nube nera, pronta a colpire indistintamente. Io, che sono un medico che ha visto, mi porto dentro come insegnamento il rapporto tra colleghi e il rapporto tra medico e paziente. Spesso tra medici vi è una sana competizione, come del resto in molti ambienti lavorativi. Mai più in futuro valuterò in maniera superficiale le persone, perché ho scoperto nei miei colleghi valori di professionalità e di coraggio. C’era tra tutti noi un forte spirito di gruppo, come accade in guerra, quando un soldato si mette davanti piuttosto di non far colpire il compagno accanto. Il rapporto con il paziente si è completamente stravolto, nel libro racconto che un paziente intubato per farmi coraggio (ero alla fine di una giornata deprimente per tutto quello che era successo), mi fa il gesto dei pollici in alto, perché aveva intuito il mio scoramento. “Come a volermi dire: “Coraggio! Qualcosa che va bene c’è, mi sento meglio!”. Ho sentito affievolirsi questo rapporto di subalternità, che spesso si viene a creare tra medico e paziente».

I giornali e le televisioni vi hanno definito “medici-eroi”, camici bianchi in prima linea sul fronte del coronavirus, nelle sale di rianimazione dove il rischio contagio era elevatissimo. Le vittime del Covid-19 hanno subito anche lo strazio umano e psicologico di un addio senza il conforto dei propri familiari. Possiamo chiederLe che cosa si è sentito di fare nei loro riguardi in quei frangenti? 

«Sono stati questi i momenti più difficili. Quello che abbiamo potuto fare, io e i miei colleghi, è stato essere presenti. Devo dire che spesso parole non ce ne erano, però c’era una presenza, una mano su di una spalla o appoggiata su di una gamba. Tutto questo per non far sentire i pazienti soli. Quello che accomunava tutti questi pazienti, molti con patologie pregresse, era la sensazione di sbigottimento e di incredulità. E questo faceva più male. È vero che c’erano tanti anziani con precedenti malattie che non versavano in condizioni ottimali, ma in tutti loro c’era la sorpresa di una cosa inaspettata che stava accadendo loro. “Perché devo morire così, per una cosa che non si vede?”. Per loro era incomprensibile, in quegli occhi si leggevano tante domande: “Ma come, fino a l’altro ieri avevo una leggere febbriciattola, ora invece mi trovo in una situazione di totale gravità. Come è mai possibile?”. Da qui lo sbigottimento». 

Si è domandato per quale motivo la pandemia ha colpito maggiormente la regione lombarda e la zona della bergamasca, dove il virus ha fatto una vera strage? 

«Questa domanda me la sono posta più volte al giorno. Ho visto arrivare pazienti in fin di vita, gravissimi. Adesso per fortuna no, vedo arrivare pazienti asintomatici anche se positivi. Credo che lo scorso febbraio, quando tutto è iniziato in Lombardia, il virus già circolasse da qualche tempo. In Lombardia vi sono molte aziende e quindi una comunità laboriosa e molto produttiva. Ecco perché in questi luoghi si è sviluppata un’enorme carica virale (questo virus fa male quando ha un’alta carica virale), inoltre in inverno si vive molto in comunità, sul luogo di lavoro, a scuola, in famiglia, ecc… Ricordiamo anche Atalanta – Valencia, la partita del 19 febbraio di Champions League per la quale quarantamila persone si sono spostate in auto, sui pullman. Una bomba micidiale. È stato come una pentola il cui contenuto è venuto su pian piano. Ecco come il Covid-19 in Lombardia e al Nord d’Italia ha avuto tempo di far crescere la sua carica virale».