Odierai il prossimo tuo: abbiamo dimenticato la fraternità? Parla Lorenzo Fazzini

abbiamo più paura, di tutto e di tutti. La crisi economica ha lacerato l’idea che in futuro staremo meglio

Il Cardinale Matteo Maria Zuppi, Arcivescovo di Bologna, coadiuvato da Lorenzo Fazzini, compie alcune “Riflessioni sulle paure del tempo presente” nel saggio “Odierai il prossimo tuo. Perché abbiamo dimenticato la fraternità” (Piemme 2019, Collana “Religione e Spiritualità”, pp. 192, 16,50 euro),

Il tema del volume è il crescente e latente rancore presente nella società italiana, dove i rapporti e la comunicazione, vedi web e social, sono dominati dall’aggressività e le porte delle case sono chiuse agli estranei, al diverso. Inoltre le donne, pensiamo alla piaga del femminicidio, e gli immigrati sono vittime frequenti di violenze verbali e fisiche, e le inimicizie, le fratture si propagano anche all’interno della comunità dei credenti. Poi nel febbraio 2020 nel nostro Paese si è insidiato il Coronavirus e forse le cose possono cambiare.

Ne parliamo con Lorenzo Fazzini, nato nel 1978, giornalista e scrittore, laureato in lettere e diplomato in scienze religiose, che vive e lavora a Verona e scrive articoli di cultura e religioni per i quotidiani “Avvenire” e “L’Osservatore Romano”.

Il 52esimo Rapporto Censis dello scorso anno ha fotografato un’Italia incattivita e spaventata,preda di un sovranismo psichico, che talvolta assume profili paranoici della caccia al capro espiatorio”. È anche per questo che restiamo indifferenti, non commuovendoci più di fronte “ai rischi terribili di chi affronta il Mediterraneo su un barcone”? 

«Penso di sì. E il cardinale Zuppi, nel libro, lo ricorda più volte: sembra quasi che a un senso di indifferenza – quella “globalizzazione dell’indifferenza” di cui parlò per primo Papa Francesco nel suo storico viaggio a Lampedusa – sia addirittura subentrato un sentimento di colpevolizzazione di chi è in difficoltà, un senso di astio verso chi cerca da noi un futuro migliore per sé e per i propri cari. Questo è un segnale che Zuppi evidenzia e stigmatizza con forza, perché capisce, da pastore e persona che è, attenta a quello che succede nella società, che questo può diventare un punto di non ritorno… Se permettiamo all’odio e alla nostra “io-latria”, neologismo di Zuppi che trovo quanto mai calzante (“prima gli italiani” è la sua declinazione sociale), di diventare l’unico punto di riferimento del nostro agire personale e sociale, certamente chiunque venga a disturbare la mia quiete e si presenti anche solo come una possibile minaccia al mio benessere, non può, non deve diventare oggetto del mio risentimento, che può facilmente scadere nell’odio. Zuppi ricorda le barricate in strada nel Ferrarese contro donne e bambini migranti. Oppure il pane “calpestato” in una borgata romana, perché destinato a persone di etnia rom. Forse ci stiamo abituando troppo a questi sentimenti di aggressività malefica. Il suo richiamo è forte e documentato. Non volerlo ascoltare significa fare come gli struzzi e nascondere la testa sotto la sabbia».

Se oggi esiste più odio di ieri, qual è il motivo?

«Il cardinal Zuppi evidenzia come, a suo giudizio, ci siano due elementi che si intersecano e ci rendono più vulnerabili rispetto all’odio: da un lato abbiamo più paura, di tutto e di tutti. La crisi economica ha lacerato l’idea che staremo meglio e che andremo verso lidi migliori. Oggi i figli stanno peggio dei padri e questo inizia a incidere sulla coscienza collettiva. Di qui il senso di sentirsi timorosi verso gli altri. Dall’altra, la globalizzazione che è entrata nelle nostre case – con una pluralità di forme: informazioni, connessioni, notizie, fake news, contatti – ci ha trovati con la stessa capacità di discernimento. Sappiamo più cose ma non le capiamo fino in fondo. E la reazione istintiva e più veloce è quella di chiuderci, invece di aprirci. Di qui viene il sentimento di difesa, di auto-assoluzione, di assedio che poi, di fronte a qualche episodio concreto, si tramuta in odio».

Il sesto capitolo del volume è dedicato a “Bologna, città ferita dall’odio”. L’Arcivescovo di Bologna cita la strage di Marzabotto, le uccisioni nel “triangolo rosso” al termine della II Guerra Mondiale, la bomba alla stazione, la Uno Bianca, San Benedetto Val di Sambro. Ma Zuppi guarda anche al futuro di Bologna “città abitata da sessantamila persone di cittadinanza straniera”, perché le chiusure “ci costringono a essere solo villaggio”. Come diventare “una comunità aperta”?

«La Costituzione. Zuppi, da uomo di Chiesa forgiato dalla laicità cristiana, propone l’umanesimo della nostra carta costituzionale come una piattaforma comune, che possa unire credenti, non credenti e credenti di altre religioni. Se prendessimo sul serio la Costituzione e non solo l’insieme dei suoi articoli, suggerisce il cardinale, ma proprio lo spirito che la anima! Uno spirito che trova nel crogiuolo tra le esperienze cattoliche, socialiste e liberali la sua sintesi superba, che in tanti Paesi ci invidiano: la centralità della persona umana, la dignità del lavoro, i corpi intermedi… Ci sarebbe tanto da fare su questo!».

Abbiamo dimenticato la fraternità ed è per questo che il Cardinale Zuppi nelle pagine del volume rivolge a tutti, credenti e non, un invito esplicito: “Alimentare l’Umanesimo”.  Si può ripartire contro l’odio?

«Zuppi ha parole molto, molto forti per i cristiani: a chi si professa seguace di Cristo non solo non è mai possibile odiare qualcuno (e qui ci sarebbe già molto da dire, oggi, in Italia, rispetto a quello che stiamo assistendo, ovvero la diffusione del pensiero sovranista tra i credenti), ma anzi al cristiano è chiesto l’amore verso il nemico. Non è chiesto di non avere nemici, è la vita che ci mette davanti persone che possono avercela con noi. Ma al cristiano è domandato, anzi lo esige Cristo stesso, di guardare a tutti, anche al più acerrimo avversario, come a un fratello. È questa la rivoluzione della fraternità che ha permesso ad una religione sconosciuta di conquistare l’Impero romano. E può essere ancora una volta la forza debole del cristianesimo in questo nostro tempo di disillusioni».

Il Giornale ha definito il piccolo libro alla stregua di un “manifesto anti sovranista”. Che cosa ne pensa?

«Posso solo dire una cosa a onor di cronaca: il quotidiano che fu di Montanelli ha recensito il libro senza nemmeno averlo aperto (lo so per certo, perché non era disponibile). Scrivere di un libro senza averlo letto è come parlare di un film senza averlo visto. Se questo è il modo di fare giornalismo, il buon Indro avrà fatto tre capriole nella tomba. Ma tant’è».

Prima della pandemia imperava l’arroganza. Ora abbiamo davvero un’opportunità per essere migliori, oppure sorge un nuovo egoismo?

«Non saprei. C’è la possibilità che questo periodo di chiusura ci abbia resi più attenti alle esigenze degli altri, più pazienti e più dediti alla vita interiore. Ma anche al contempo che abbia represso il proprio io che ora vuole esprimersi in un senso di occupazione dello spazio e del tempo, senza tenere conto dell’alterità. Davvero non saprei cosa saremo in futuro. Anche perché dovremmo avere chiara una scelta etica, che in tempo di pluralismo delle opzioni morali non è poi una questione di così grande cogenza…».

In una recente intervista Alberto Angela ha detto che il futuro non ci fa paura e che in fondo il lungo periodo di isolamento, di lockdown non è stato solo negativo. Infatti, abbiamo “riscoperto l’altruismo e sono spariti i contatti superficiali”. Concorda con la riflessione del divulgatore scientifico?  

«Anche su questo punto non so prevedere il futuro e non concordo in toto con l’analisi di Angela. E’ vero, ci sono stati molti gesti di altruismo, ma forse è valsa qui – al contrario – la famosa citazione che dice: “Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”. Forse ci siamo dimenticati che nella nostra società c’è già un mare di altruismo nella forma del volontariato o del vicinato, solo che l’esperienza della quarantena lo ha mediaticizzato mentre prima rimaneva nascosto nelle pieghe della società. Su “contatti superficiali” non ho una mia opinione: certo che il boom del digitale ci interroga e ci fa domandare se le relazioni umane “vis a vis”, quelle che impegnano sul serio la persona, resteranno il nodo fondamentale del nostro vivere oppure tutto verrà smaterializzato davanti a un Personal Computer. Questa è per me la grande incognita del futuro».