Memoria di dom Pedro Casaldaliga, vescovo dei poveri

Vescovo, provocatore, poeta

“Abbiamo appena ridato dom Pedro Casaldáliga alla terra del fiume Araguaia nel cimitero indigeno dei Karajás… A piedi nudi… nella terra rossa…”, così hanno scritto su  Twitter gli amici che hanno accompagnato mons. Pedro Casaldaliga – morto a 92 anni il 12 agosto scorso – nell’ultima “caminhada” e hanno posato corone di fiori ai piedi della lapide. Un pezzo di marmo con inciso l’epitaffio scelto da lui stesso:
“Per riposare
io voglio solo
questa croce di legno
come pioggia e sole
questi tre metri di terra
e la Resurrezione!
”.

Sepolto, come aveva chiesto espressamente, nel cimitero degli indios Karajás, nella località di Ribeirão Cascalheira, il cimitero degli ultimi della regione, quello in cui hanno trovato posto tanti indigeni e tanti senza terra sfruttati nelle fazendas dedite all’allevamento del bestiame. La bara è stata messa sotto un tumulo di polvere rossa sovrastato da una croce nuda di legno, accanto alle tombe di un operaio e una prostituta senza nome.

Un uomo di Vangelo. Dunque, un uomo di parte

Così nei giorni scorsi si è chiusa la vicenda terrena di uno dei vescovi più famosi dell’America Latina. Un uomo di Vangelo e dunque un uomo che ha fatto discutere con le sue scelte. 

Era nato in Spagna nel 1928 e da missionario claretiano arriva in Brasile quarant’anni dopo. Sono gli anni del “regime dei Gorillas”, la feroce dittatura militare che schiaccia gli oppositori politici. Nel 1971 viene nominato vescovo di São Félix do Araguaia, nello Stato del Mato Grosso. Per lo stemma episcopale vuole questo motto: “Nada possuir, nada carregar, nada pedir, nada calar e, sobretudo, nada matar” (“Nulla possedere, nulla prendere a carico, nulla chiedere, nulla tacere e soprattutto non uccidere nessuno”).

Nella sua prima lettera pastorale, un documento della scelta dei poveri della Chiesa brasiliana, afferma che

“l’ingiustizia ha un nome in questa terra: latifondo”

e denuncia la politica di colonizzazione dell’Amazzonia come motore di schiavitù moderna, l’accaparramento delle terre, le crescenti disuguaglianze, la sofferenza delle popolazioni locali. Stampata clandestinamente a Sao Paulo, questa lettera lo fa conoscere fuori dai confini brasiliani e gli attira i fulmini del regime. Dom Casaldaliga chiede di essere chiamato semplicemente Pedro e 

rinuncia a portare gli attributi del suo status: la mitra, il pastorale e l’anello d’oro.

Al loro posto, preferisce un anello nero di legno di palma Tucum – un simbolo poi usato dai religiosi della teologia della liberazione -, un cappello di paglia, e un abbigliamento semplice; una scelta che gli salva la vita nel 1976, quando viene confuso con il padre gesuita Joao Bosco Burnier, che lo accompagna in abito religioso alla polizia per chiedere la liberazione di prigioniere. Le pallottole della polizia uccidono Burnier, mentre erano destinate a Casaldaliga; una tragedia che segna la sua vita e per la quale organizza ogni anno una “processione dei martiri” e costruisce un santuario vicino al luogo del crimine.

Fondatore della Commissione pastorale della terra e del Consiglio missionario degli indigeni,

è costantemente minacciato, anche nel 2012, all’età di 84 anni

in occasione della sua demarcazione del territorio degli indigeni Xavante de Maraiwatsede, per la quale aveva lottato per tutta la vita. In quell’occasione, rifiuta ancora una volta la protezione della polizia, affermando che l’avrebbe accettata “solo quando sarà offerta anche a tutti i contadini della mia diocesi minacciati di morte come me”. 

Per una Chiesa universale

Difeso da papa Paolo VI quando la giunta militare brasiliana vuole espellerlo, Pedro Casaldaliga è convocato in Vaticano nel 1988 e interrogato dal cardinal Ratzinger, allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. A differenza di altri teologi della liberazione, come Leonardo Boff, non viene sanzionato. “Mi hanno rimproverato una visione india del mondo nella mia liturgia. Ho risposto che la Chiesa è troppo centrata sull’Europa, che l’America latina e l’Africa non sono per niente rappresentate in Vaticano”. Dal 2012 era malato di Parkinson, che chiamava “fratello Parkinson”.

Di fronte all’ingiustizia non si può stare a metà

Poeta di valore, dom Pedro, ispirato dal Concilio, è stato un uomo che con coraggio ha mostrato che il 

Vangelo scegliendo, in modo preferenziale, gli ultimi, i non tutelati e i non garantiti, offre un punto di vista privilegiato con cui guardare il mondo.  

I cristiani devono scegliere da che parte stare e non possono stare a metà perché “non esiste il centro tra giustizia e ingiustizia.” Costi quel costi. 

Tu mi conosci interamente, prima dei miei giorni

Immagino la gioia di questo vecchio vescovo quando, pochi mesi fa, gli hanno riferito che papa Francesco ha inserito uno dei suoi testi poetici nell’esortazione apostolica post sinodale Querida Amazonia. Al paragrafo 73, il papa “venuto dalla fine del mondo”, lo stesso dove dom Pedro ha vissuto gran parte della sua vita, affrontando il tema dell’inculturazione scrive: “Va apprezzato lo spirito indigeno dell’interconnessione e dell’interdipendenza di tutto il creato, spirito di gratuità che ama la vita come dono, spirito di sacra ammirazione davanti alla natura che ci oltrepassa con tanta vita”.

Aggiunge poi che la “relazione con Dio presente nel cosmo” deve diventare “sempre più la relazione personale con un Tu che sostiene la propria realtà e vuole darle un senso, un Tu che ci conosce e ci ama”. Ed è a questo punto che il Papa menziona le parole di Casaldàliga che, lette ora, sono un vero e proprio saluto di gratitudine e di affidamento: 


“Galleggiano ombre di me, legni morti.
Ma la stella nasce senza rimprovero
sopra le mani di questo bambino, esperte,
che conquistano le acque e la notte.
Mi basti conoscere
che Tu mi conosci
interamente, prima dei miei giorni”