Preti, stress, burnout, gestione di sé. Riflessioni in libertà

Parroco e curato, oggi

Chiacchierando con qualche amico prete, è emerso come stia avanzando, in Diocesi, soprattutto nei preti giovani, una situazione di preoccupazione.

Alcuni non se la sentono di fare il parroco

Preoccupazione per la quantità di cose da fare, l’essere sempre “di corsa”, la percezione di non riuscire a far tutto o di non far bene le cose, in quanto troppe… Questi aspetti vengono ritenuti da molti come gli elementi principali che hanno causato e causano fatica in molti sacerdoti, soprattutto curati di oratori, fatica che, purtroppo, ha causato un forte squilibrio in alcuni confratelli, giunti a vere e proprie sofferenze psicologiche (non scopriamo oggi che i preti sono tra i primi nelle statistiche per i rischi da “sindrome da burnout”).

Alcuni di loro hanno deciso di fermarsi per un periodo significativo, che qualche volta ha condotto poi alla scelta di lasciare il ministero sacerdotale.

Sono questioni forti e serissime, queste, perché si entra nella sfera sacra della persona e, come Mosè nei pressi del roveto ardente, è necessario “togliersi i sandali” ed avere il massimo rispetto per la vita di ciascuno, le sue fatiche e le sue fragilità.

Una delle proposte che ho ascoltato è quella di trovarci tra noi e metterci in dialogo con i superiori, per parlare, confrontarci su questi temi e su questi problemi. Peraltro, qualcuno riferisce che sia crescente anche il numero di sacerdoti che per questi motivi rifiuta il ruolo di parroco e di seminaristi che si augurano di non diventare curati di oratorio.

Un problema serio: come “gestire la propria vita” di prete

È chiaro che qualche problema c’è: fingere che non ci sia sarebbe scorretto e condurrebbe, pian piano, a un aggravamento della situazione. Che occorra parlarne nelle sedi opportune, e se queste sedi non ci sono occorra costruirle, è evidente.

Mi permetto allora di aggiungere una riflessione che, da parte mia, sarà necessario affrontare, qualora avvenisse questo auspicato momento di riflessione e ascolto condiviso. È fondamentale parlare della vita del prete, di come lui stesso si gestisce. Infatti, dal mio punto di vista, a poco servirebbe un confronto su quello che facciamo, su quanto facciamo, su cosa va portato avanti e cosa si può lasciare ad altri enti, se non si riflette su come ciascuno di noi gestisce la propria vita.

In fondo, non è un decreto vescovile o un comunicato del vicario generale che fissa la mia agenda. Qui sta il punto secondo me.

È chiaro che dovremo riflettere a livello generale sulle priorità pastorali, anche per concordare cammini condivisi e non lasciare tutto alla fantasia pastorale di ciascuno: giustissimo, questo. Tuttavia, è ciascuno di noi, poi, che vive nella comunità. E allora provo a pensare alla mia vita.. che non è da esempio per nessuno, è semplicemente la mia, quindi mi riferisco a quella.

Io, curato di due oratori

Se volessi arrivare dappertutto, con due oratori di comunità medio-grandi (5000 persone una, 7600 l’altra), potrei affittare la camera da letto… perché non ci sarebbero più giorno e notte! Le questioni sono tante: catechesi, adolescenti, gestione degli Oratori, equipe educative, colloqui,  CRE (che per me sono in contemporanea), campi scuola…

Dinanzi a tutto questo, non ho altra scelta che fissare delle priorità quotidiane. La prima è quella di celebrare bene la Messa e fissare il tempo per pregare con il breviario: se non lo facessi, finirei per dover “recuperare” tutto il breviario la sera dopo le 23 (o mezzanotte…), con il rischio di trovare il breviario a terra nel bel mezzo della notte e sentire il collo dolorante per essermi addormentato sulla poltrona (cosa realmente accaduta durante qualche Compieta).

Poi, la giornata si riempie, ma va riempita con criterio. C’è il tempo della scuola (che fissano altri… grazie a Dio), quello delle riunioni, quello per stare in Oratorio e salutare chi c’è, quello per stare in segreteria e quello per leggere e studiare.

Leggere e studiare? Sì, perché anche quello fa parte del ministero, non per esibire cultura, ma per nutrire la propria interiorità e avere criteri di lettura obbiettiva della realtà.

C’è poi il tempo dell’ascolto personale di chi chiede un momento di colloquio, costitutivo del nostro ministero e oggi sempre più fondamentale. Ci sono le riunioni serali… e c’è da andare a dormire! Sì, anche quello. Non ho mai accettato di raggiungere un’altra riunione dopo averne terminata una alle 23: non è giusto per me e non è giusto per gli altri. A una certa ora, le attività devono cessare. Capiterà certamente qualche volta che sarà necessario fare le “ore piccole”, ma questo non può e non deve diventare la normalità.

A volte, e questo noi preti dobbiamo dircelo, siamo eccessivamente legati alle prestazioni.

Ecco, a me i confratelli andati in difficoltà che si prendono giustamente del tempo per riprendere in mano le redini della loro libertà, che ricordo sempre nella preghiera, insegnano innanzitutto questo: che l’essere prete non è questione di prestazione, che non possiamo eccedere per paura delle malelingue o delle critiche (che ci sono sempre e comunque… e che diventano ancora più aspre, quando poi il prete va in difficoltà), che lo zelo pastorale, l’amore per la nostra gente e per il nostro ministero, necessari, devono fare i conti con i nostri limiti umani (anche fisici e psicologici!).

Dovremo, insieme con questo, anche domandarci quanto ci prendiamo cura gli uni degli altri, quanto ci aiutiamo, quanto ci sosteniamo. Non possiamo aspettare oltre. Dobbiamo farlo adesso.  

  1. Grazie dello spazio aperto. Credo che i rischi e le domande aperte sulla figura del prete giovane sua da allargare al presbiterio. È fortemente vero: Non ci sono spazi e luoghi in diocesi dove il prete può essere se stesso, trovare una casa o un luogo di riposo, ristoro e riflessione. Credo che queste domande, oltre al prete che sempre e chiamato a lavorare su se (cosa non scontata), chiedano alla diocesi di impegnarsi ad accompagnare questo nostro tempo e a dedicare del tempo alla cura dell’identità del prete per questa chiesa e per questo tempo. Comprese quindi anche le questioni più legate alle cose da fare.
    Infine mi chiedo: siamo cresciuti in questi ultimi anni con un progetto educativo di teologia forte e capace di essere strumento per chi cammina in seminario e chi è già prete. Ripartire da lì? Sarebbe auspicabile.

  2. Questo, come il precedente articolo “cosa serve a preti giovani”, esprimono chiaramente come sono nella realtà, le nostre comunità tuttotondo “dell’oggi”, ma che sono frutto di moltissimi anni in cui ci si è adagiati, a volte, sottovalutando le problematiche, non affrontando le cause dei molti disagi. Quel “sentimento” di solitudine, nell’affrontare la quotidianità, non è solo intuibile dalla parte del prete, ma è percettibile nell’intera comunità, in senso lato. Il procrastinare, assolvendo, senza alcuna contropartita nel essere compresi, ci porta, senza dubbio, ad un punto di rottura e di apatia, che inevitabilmente logora il nostro essere interiore, fino ad arrivare alla malattia del “corpo”! ripartire da dove? da madre in costante attrito tra la mia volontà in rispetto dell’altrui, posso confessare che la stanchezza psicologica è tale, da non riuscire più a progettare alcunché, vivendo al secondo e viaggiando a vista, sulla base dei momenti più o meno pesanti o buoni, o dir si voglia, sulle onde emotive di ogni singolo attimo che la vita regala, senza pensare a niente altro… e a testa bassa… continuare il cammino, sperando in momenti migliori! In fondo, in fondo, prevale la compassione ed il “sentimento” di empatia che porta, sempre e comunque a prendermi cura di coloro che mi circondano, sia negli affetti che nella vita quotidiana; siamo sulla stessa barca in un mare in tempesta,e che non ci deve mai trovare “addormentati” ma a proseguire tenendo il timone ben saldo fra le nostre mani…Coraggio, insieme ce la faremo!

  3. Mi chiedo come mai Papa Francesco non si ponga anche questo grande interrogativo. Forse sarebbe il caso che anche i preti avessero una famiglia che li sostenga.. O, forse, questo insieme di “cose da fare che esauriscono” porta con sé la grande domanda : è necessario saper gestire un oratorio e tutte le attività per essere prete? Quindi, non sarebbe meglio fare in modo che il prete faccia il prete, cioè che abbia più spazio e più tempo per la preghiera e per la cura delle anime che non alle attività di “animatore”? Inoltre, sarebbe anche necessario capire quanto i debiti di una parrocchia possano influire negativamente sulla qualità del sonno del prete.. Insomma, Gesù li ha inviati in coppia ad evangelizzare ma, molto spesso e anche a causa del Coronavirus, si ritrovano completamente soli nel deserto di una parrocchia che pensavano di conoscere alla perfezione. Con affetto

    1. Se posso permettermi, cara Eleonora, occuparsi anche delle attività “animatoriali”(ludico-sportive), (mi pare che nella parola ci sia “anima”), è un modo diversamente valido, usando il “corpo” per arrivare all’anima, e che non sia, per niente, di secondaria importanza! Siamo noi laici, invece, che dovremmo cambiare opinione sulle prerogative di ciò che un prete deve fare od avere, anche in senso affettivo, affinché lui possa esprimere ogni dono datogli dal Signore, attraverso i “corpi” non divisi dalle “anime” di una intera comunità; lo spirito di servizio con cui ognuno di noi, può donare,(essere aperti anche alle novità)e nel fare secondo le proprie indoli, fa sì che il puzzle non sia mancante di alcun “pezzo di incastro”. Le relazioni sono essenziali se basate su sincerità, concretezza e nessun pregiudizio! Se si percepisce cosa “serve” al prete come responsabile di anime, e come lo si deve svolgere (senza sgomitate, invidie e prevaricazioni), in modo opportuno avendone cura, forse quel “sì”, “eccomi”, di ciascuno, fa sì che una comunità possa godere fino in fondo di grandi opportunità per “nutrire” anime!

  4. In questo modo mi pare che il problema si dirotti sui laici.. Nella mia ex parrocchia, il curato ha rinunciato all’incarico perché « esaurito » e questo nonostante avesse tutto l’appoggio dei parrocchiani.. Non sto criticando il mio povero curato ma, semplicemente, vorrei capire quanto fare il prete si identifichi con le sue attività e non con la chiamata a seguire Cristo anche nella solitudine di un mare in tempesta..

  5. Il commento più puntuale credo sia di DonMatia laddove lascia intuire che, più che le cose “da fare come prete”, che provocano smarrimento e necessità di ripensamento, sono le cose su cui poggia “l’essere prete”.
    Le cose da fare penso sia paragonabili a quelle di un padre di famiglia che, dopo una giornata di lavoro magari lontano (lunga e incerta nel futuro) si sobbarca l’educazione dei figli, l’amministrazione della casa e magari l’attività in parrocchia. Con il rischio di essere poi definito dal prete “cristiano molle” se a volte non riesce a fare sempre presenza o, alternativamente, accusato di non lasciare ricambio ad altri quando è presente.
    Se vi è la necessità di tempo per riprendere in mano le redini della propria libertà significa che è il senso di ciò che si fa che va ripensato. E questo è certamente un grosso problema.

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