La Parrocchia, tutta da ripensare

Nostra invervista a mons. Goffredo Zanchi

Hai parlato, nel tuo intervento all’assemblea del clero dello scorso 9 settembre, di un cambiamento radicale cui è sottoposta la parrocchia, oggi. Di che cosa si tratta?

Diversi testi del magistero e Papa Francesco stesso parlano di un “cambiamento di paradigma” della parrocchia. La parrocchia tradizionale aveva la funzione di tutelare e conservare la fede in una mondo naturaliter cristiano. Oggi la parrocchia è chiamata ad annunciare e testimoniare quella fede in un mondo secolarizzato.

Si tratta di una svolta epocale in cui tutto viene rimesso in discussione e va ridefinito.

Si dice anche che la parrocchia deve “uscire”, più culturalmente che fisicamente, deve “uscire” per parlare a quel mondo che è uscito dalla Chiesa. In questo senso si definisce questa nuova parrocchia, come “missionaria”.

Tutto va ripensato. Ma quando tutto va ripensato viene spontaneo chiedersi: che cosa fare? Da dove cominciare? La tentazione, mi pare, è che, dovendo fare tutto, si finisca per non fare niente.

Il centro storico di Bergamo: Palazzo della Ragione, Cappella Colleoni

C’è, anzitutto, un vuoto di competenza, di conoscenza che va colmato. Bisogna tornare, ostinatamente, alla formazione del clero e dei laici. Per capire, per riflettere. Mi domando: il clero bergamasco nel suo complesso è generalmente preparato a sostenere un discorso all’altezza del tema della “parrocchia missionaria”? Nutro dei dubbi al riguardo,  ma anche per i laici, a partire da quelli appena eletti nelle C.E.T, chiamati a compiti impegnativi.

Cerco di ipotizzare un itinerario concreto. È solo un’ipotesi. Si nomina un gruppo di persone, rappresentative, significative, competenti, un “comitato”. Si chiede loro di produrre un “instrumentum laboris”, un documento-base. Immagino una prima parte in cui si potrebbe tentare di delineare i tratti dominanti della crisi della parrocchia tradizionale e la sua conseguente, necessaria trasformazione missionaria. I documenti della Chiesa, la CEI, papa Francesco ne parlano.

Immagino poi una seconda parte che dovrebbe tentare un’indagine sulla situazione delle parrocchie della nostra diocesi ed individuare i settori maggiormente bisognosi di intervento.

Il documento dovrebbe, ovviamente, essere presentato al Vescovo, al Consiglio Presbiterale e al Consiglio Pastorale della diocesi. 

In realtà, però, si ha la sensazione che i consigli diocesani siano un po’ defilati rispetto alla Chiesa concreta e che non abbiano un ruolo particolarmente significativo nella vita della diocesi.

Mi pare che a partire dal primo periodo post-conciliare, anni Settanta, ci sia stato un loro progressivo depotenziamento. Nei primi anni il presbiterale partecipava attivamente con proposte, con documenti di studio su particolari problemi. Oggi mi sembra che il tutto si riduca alla richiesta di pareri sui temi presentati, ma anche questi trattati con una discussione affrettata…

Vi è una carenza di metodo di lavoro, per cui il presbiterale non sembra soddisfare del tutto i compiti che gli sono assegnati dal Codice di diritto canonico di essere il principale aiuto al Vescovo circa i più importanti problemi pastorali della diocesi.

Dice il Codice di Diritto Canonico, art. 495-501: “Il Consiglio presbiterale … sia come il Senato del Vescovo; spetta al Consiglio Presbiterale coadiuvare il Vescovo nel governo della Diocesi  … affinché venga promosso nel modo più efficace il bene pastorale della porzione di popolo di Dio a lui affidata”. Sono belle parole, ma sono rimaste, quasi sempre, parole. 

Considerazioni analoghe si potrebbero fare per il Consiglio pastorale. 

Questo per quanto riguarda gli organismi centrali. Si può tentare di delineare qualche indicazione anche sui consigli interparrocchiali o parrocchiali? 

Lo stile adottato a livello centrale finisce per avere ripercussioni anche a livello parrocchiale e negli organismi di zona recentemente istituiti in sostituzione delle vicarie. Se è carente ai vertici lo è anche ai livelli inferiori.  Un confronto ad ampio raggio e guidato da un documento di lavoro autorevole, permetterebbe un coinvolgimento reale dell’intera diocesi ed una rinnovata consapevolezza della propria appartenenza  e responsabilità da parte di tutti nella Chiesa di Bergamo. 

Eppure la Chiesa di Bergamo ha vissuto momenti vivi, creativi, in cui ha avuto il coraggio di ripensare a fondo la sua pastorale…

Sì, almeno due. Il primo è stato il convegno ecclesiale Dare alla diocesi di Bergamo un volto di Chiesa conciliare, voluto dal vescovo Oggioni. 

Si trattò di un’attività che vide il coinvolgimento reale di tutte le componenti della diocesi in uno sforzo comune di riflessione e di progettazione pastorale, culminato nella solenne cerimonia allo stadio di Bergamo del 2 giugno 1991. 

Mons. Giulio Oggioni, vescovo di Bergamo dal 1977 al 1991

Il convegno aveva messo in luce con coraggio alcuni limiti quali una pastorale sbilanciata sull’attivismo e sulla ripetizione del tradizionale e la tenace persistenza del clericalismo. Venivano sottolineata l’esigenza di mettere a tema il rapporto tra la fede e la modernità e la necessità di formare comunità di cristiani adulti nella fede. 

Forse più significativo degli stessi contenuti fu lo stile messo in atto nel Convegno: la riflessione sul vissuto, il confronto con l’insegnamento del Vaticano II, la ricerca, il lavorare a livelli diversi tra loro convergenti. Ne veniva fuori un’immagine di Chiesa ed una modalità di lavoro significative per se stesse, per il loro sapore tipicamente ecclesiale.  

Qualcosa del genere si è rivisto anche con il sinodo dell’episcopato Amadei, mi sembra…

Sì, è il secondo dei momenti significativi di cui parlavo. Già il tema del sinodo era interessante: La Parrocchia e il suo volto in un mondo che cambia. 

Mons. Roberto Amadei, vescovo di Bergamo dal 1991 al 2009

Il Sinodo ha prodotto strumenti di lavoro sui singoli argomenti riguardanti la parrocchia, che potrebbero contenere utili indicazioni.

Anche a quei testi si dovrebbe tornare e chiedersi in che modo sono ancora proponibili oggi e, se diverse indicazioni di allora sono state superate, ci si dovrebbe chiedere perché e quindi partire dalle risposte a quei perché per trovare nuove strade. 

Qualcuno teme, di fronte a questa proposta, tempi eccessivamente lunghi…

Se i vuoti di cui parlavo prima sono veri, bisogna riempirli con pazienza. Le rifondazioni, i nuovi paradigmi non si inventano in un giorno. Un lavoro metodico ben fatto e con  tempi adeguati non va mai perso e può costituire la prima fase di un processo non esauribile in qualche provvedimento, ma destinato a durare più anni.

Siamo di fronte ad una svolta epocale dalle vaste conseguenze e con incidenza profonda sull’azione evangelizzatrice della Chiesa. Si tratta di porre un  primo solido fondamento ad uno sforzo che vedrà impegnata la nostra Chiesa, come ogni altra comunità ecclesiale, per decenni. Per questo sarebbe necessario procedere in rete con  le altre diocesi per un utile scambio di esperienze.