La cura dell’umano ai tempi del covid. Alberto Giannini, l’emergenza e l’etica delle scelte

Affronterà con coraggio un tema drammaticamente attuale, La cura dell’umano al tempo del Covid, l’edizione 2020 del corso di «Invito alla Teologia», in programma a Bergamo – presso la Casa del Giovane, in via Gavazzeni – nei primi tre venerdì di ottobre, sempre con inizio alle 20.45. Per la partecipazione in presenza agli incontri del ciclo – organizzato dalla Scuola di teologia del Seminario in collaborazione con la Fondazione Bernareggi – è richiesta la prenotazione, telefonando allo 035.278151 o inviando un’e-mail a info@fondazionebernareggi.it; le conferenze potranno però essere anche seguite online, sulla piattaforma Zoom. Interverranno come relatori – nell’ordine – Alberto Giannini, primario della Terapia intensiva pediatrica degli Spedali Civili di Brescia (il 2 ottobre: Emergenza sanitaria, limitatezza delle risorse, accesso alla cura), lo psichiatra Sergio Astori, docente dell’Università Cattolica di Milano (venerdì 9: Le parole della cura e il tempo della malattia e del disagio), e il gesuita padre Carlo Casalone, professore di Teologia morale alla Pontificia Università Gregoriana (il 16 ottobre: La cura pastorale della Chiesa e la fraternità universale).

Nello scorso mese di marzo, mentre i numeri dei contagiati e dei morti di Covid-19 si impennavano, la Siaarti (Società italiana di Anestesia, Analgesia, Rianimazione e Terapia intensiva) aveva pubblicato un testo intitolato «Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione, in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili». Alberto Giannini, insieme ad altri sei colleghi, aveva firmato quel documento.

Da parte di alcuni, all’epoca, avevate ricevuto critiche molto dure. Si disse che voi eravate dell’idea di «lasciar morire i vecchi», senza attaccarli a un ventilatore.

«In realtà, noi avevamo sottolineato che la valutazione dell’opportunità di sottoporre un malato a determinate cure non poteva basarsi semplicemente sulla sua età anagrafica. Qualcuno ci aveva anche accusato di contravvenire al Giuramento di Ippocrate, qualcun altro aveva ricordato, in tono solenne, che dovere del medico è di “curare tutti”. Non ci sognavamo di mettere in dubbio questo principio deontologico: il problema è che, in un periodo in cui le Terapie intensive si riempivano di malati, non era materialmente possibile assicurare a tutti un eguale livello di assistenza e cure».

Voi intendevate sottolineare che per poter agire in una situazione di emergenza medici e infermieri devono disporre di criteri etici condivisi?

«Di questo sono sempre stato convinto, anche prima dell’arrivo di questa pandemia. Nel 1998 avevo pubblicato sulla rivista Medicina e morale un articolo intitolato Il dilemma dell’ultimo letto: allocazione di risorse limitate in rianimazione. In esergo [61] a quel mio testo, citavo una frase di uno dei pionieri dell’odierna bioetica, Joseph Fletcher, per cui una riflessione morale seria in tale ambito “ha a che fare con la tragedia, non con il melodramma – con scelte tra valori in conflitto tra loro, non con ovvie distinzioni tra bene e male, giusto e sbagliato”. Il medico ha il dovere di curare tutti, è vero, ma non possiamo ignorare la realtà di situazioni in cui le risorse sanitarie sono insufficienti ad assicurare a tutti i malati un eguale trattamento».

È una scelta anche quella di procedere «a random », lasciando cioè che sia il caso a stabilire a quale paziente sarà data la priorità?

«Certo, e questa scelta può incidere negativamente sulla possibilità di sopravvivenza di persone che pure avrebbero avuto chance di recupero. In alternativa a questo procedimento “casuale”, qualcuno propone di ricorrere al principio first come, first served: la priorità andrebbe data a quei malati che per primi sono stati visitati dal medico. Si noti che, a livello internazionale, questa idea è sostenuta da illustri bioeticisti».

È un approccio apparentemente «democratico». Però – quantomeno nel caso del Covid-19 – sarebbe la «lotteria» dei tempi di contagio e di arrivo in ospedale a determinare chi potrà trovare un posto letto in terapia intensiva e chi no.

«Non solo: se io do la priorità a un malato con scarsissime possibilità di sopravvivenza, rispetto a un altro che è stato ricoverato dopo di lui, corro il rischio di ritrovarmi con tutti e due questi pazienti morti. Personalmente, sono ancora convinto di quanto scrivevo ventidue anni fa in quel mio articolo: in una situazione di scarsità di risorse sanitarie è molto più giusto ricorrere a un criterio prognostico, destinando quelle disponibili a chi ha maggiori possibilità di sopravvivere e di guarire. Anche uno dei più noti teologi moralisti del secolo scorso, Bernhard Häring, condivideva questo approccio. Ripeto: in situazioni come quelle a cui ci riferiamo il medico non è chiamato a compiere una scelta tra il bene e il male, intesi astrattamente; deve invece affrontare dilemmi tragici, cercando di realizzare ciò che “qui e ora” è, concretamente, il “bene possibile”».

Nei mesi a venire, situazioni dilemmatiche di questo tipo si ripresenteranno in gran numero? I dati sull’andamento dei contagi da SARS-CoV-2 non sono tranquillizzanti.

«Io però, nella relazione che svolgerò venerdì a Bergamo, vorrei cercare di andare un po’ più in là dei problemi legati a questa emergenza. In una recente conferenza stampa, riferendosi appunto all’epidemia di Covid-19 in Francia, Emmanuel Macron ha detto: “Ci siamo dovuti confrontare con l’inaudito e l’impensabile”. Questo può essere vero per noi, che abitiamo in Occidente; ma in altre regioni del nostro pianeta una situazione di terribile limitatezza delle risorse sanitarie non è “inaudita”, non costituisce una novità. In molti Paesi dell’Africa subsahariana, per esempio, i medici devono decidere quotidianamente a quali tra i loro pazienti somministrare i pochi farmaci disponibili. Peraltro, anche limitandoci al Nord del mondo, dobbiamo ricordare che il problema di come gestire delle risorse sanitarie limitate non è poi così recente: si era già posto negli anni Sessanta del secolo scorso, con l’introduzione delle prime macchine per la dialisi, che non potevano bastare per tutti i malati di insufficienza renale grave. Lo stesso avvenne – e tuttora avviene – con i trapianti d’organo. Era successo anche con la commercializzazione dei primi farmaci antivirali in grado di curare l’epatite C, malattia molto insidiosa, dato che può evolvere in cirrosi epatica o addirittura in cancrocirrosi: inizialmente questi farmaci erano costosissimi, al punto che ci si trovò costretti a selezionare i pazienti a cui somministrarli. In breve: la questione di come vadano gestite le risorse sanitarie non è nata con il Covid-19 e non verrà meno quando sarà finita questa pandemia. Non è neppure una questione che riguardi solo il personale medico di una Terapia intensiva o di un pronto soccorso: è un problema più vasto, con risvolti di ordine sociale e politico».

Dunque, «dilemmi tragici» come quelli a cui lei accennava si porranno sempre. Non potrebbero però ridursi nel numero, se le risorse fossero un po’ meno esigue? Anche le scelte operate «a monte», anche le decisioni strategiche di politica sanitaria hanno un rilievo etico.

«Prima di ricorrere a un razionamento delle cure, occorrerebbe aver messo in atto con determinazione tutti gli accorgimenti possibili volti a scongiurare questa eventualità. Quando poi effettivamente si deve praticare un razionamento, la relativa responsabilità morale non può essere attribuita solo al medico, lasciandogli “il cerino in mano”. La responsabilità si estende all’intera catena di governo del sistema sanitario: riguarda anche chi stabilisce i budget di spesa, chi decide la distribuzione sul territorio dei posti letto, chi dirige gli ospedali. Se non si tiene presente tutto questo, se si attribuisce un valore etico solamente alle scelte dei medici di Terapia intensiva o del pronto soccorso, si rischia uno strano andamento pendolare nell’opinione pubblica: alternativamente, questi medici saranno celebrati come “nuovi supereroi” oppure – quando le cose vanno male – saranno descritti come mostri di cinismo, disinteressati alla sorte dei loro pazienti».

  1. “il nostro corpo è nato perfetto”!: cosa ci ha portato ad una medicalizzazione estrema a tal punto che per qualsiasi cosa, ci debba essere un rimedio “chimico”? Sono nipote di una naturopata che leniva le sofferenze, anche guarendo, in un contesto di inizio secolo scorso, dove ancora non esisteva la penicillina che fu una grande scoperta scientifica e a cui sono susseguiti altre scoperte di cui la medicina oggi gode. Cosa ci si è dimenticati nei corso degli anni? che il corpo ha la possibilità di auto-soccorrere in modo naturale quella parte che viene attaccata dal mondo in cui è circondata, e che sempre è soggetta alle variazioni con cui noi uomini, assoggettiamo la Terra ai nostri voleri per solo e semplice spirito di monetizzazione e per il solo fine di immensi guadagni, che, come un cane che si morde la coda, aumentano sempre di più, più noi ci ammaliamo! E’ vero!: a volte si deve scegliere se vivere o morire! Quando il tuo orologio biologico programmato fin dalle origini è stato “aggiustato” con corpi estranei al tuo, penso che quell’orologio, mai più funzionerà alla perfezione fino a fermarsi da solo! La verità sta, che non sappiamo più sopportare nessun dolore benché minimo, e che dobbiamo avere sempre una pillola per tutto, anche quando non è necessario… ed ora ne scontiamo gli effetti… buona vita

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