“Mamma, secondo me ho il Covid”

“Mamma, secondo me ho il Covid, mi porti dal dottore?”. No, non è successo a me, ma alla mia amica. Che ha figli ormai adolescenti.

“In che senso pensi di avere il Covid?”. “Ho mal di ossa e di pancia, anche un po’ di mal di gola, respiro male. E mi sento tanto debole. Ho proprio paura d’averlo”. “Mah…non è che ogni sintomo debba essere Covid, magari hai solo bisogno di un po’ di riposo, avrai preso freddo. Però se hai dubbi così forti va bene, andiamo”. E sì, lo ha portato subito dal dottore.

Attese, file, visite, il dottore che si congratula col ragazzo perché questo è l’atteggiamento giusto. Il giorno successivo il tampone. Nel frattempo un ragazzo di 15 anni terrorizzato di contagiare qualcuno per sbaglio, pur portando la mascherina, nel percorso ambulatorio-casa. Un ragazzo che si sente addosso la responsabilità di dover avvisare subito gli amici. Genitori che si mettono le mani nei capelli, fratelli che incrociano le dita.

Il responso, per fortuna, arriva veloce: negativo. Sospiro di sollievo. Ma il tutto fa riflettere.

Soprattutto perché mi viene inevitabile sommarlo a ciò che vivono i miei bambini alla scuola elementare. Fa paura il naso che gocciola, non parliamo del colpo di tosse. I miei figli sono più bravi di me a ricordare sempre di metter la mascherina, rispettano le file, si spalmano di gel igienizzante manco fosse latte detergente, in classe se ne stanno seduti al banco per ore. Alice, 5 anni e mezzo, mi spiegava giusto ieri che un’amica le aveva chiesto un pezzo del suo panino e che ha dovuto dirle di no perché sa che non può darglielo. L’amica ci è rimasta male, lei ancor di più. La mensa si fa in classe, ognuno seduto al proprio banco, ben distanziato dagli altri. Non ci si alza. I pastelli e le matite stanno in una scatola che non si riporta mai a casa. All’intervallo si esce fuori, in un giardino che è stato diviso in settori in modo che ogni classe abbia il proprio confine non oltrepassabile.

A me sta tutto bene. Benissimo, se può servire a contenere il dilagare dei contagi. Benissimo, se si scongiura il rischio di tornare a mesi folli di didattica a distanza via pc. Eppure mi soffermo spesso a riflettere su quanta poca coerenza ci sia in ciò che ci accade attorno. Su quanto spesso si diano colpe ai giovanissimi, che sinceramente, per quel che vedo coi miei occhi, sono in molti casi incredibilmente responsabili. Forse pure troppo. Perché sì, a me fa strano pensare che a 13-14 anni si possa aver paura di un compagno che starnutisce, di una mano che ti stringe, di un amico che t’invita a casa sua. Mi fa strano pensare che un bambino di 7 anni mi venga a dire: “Mamma, mi piace un sacco il calcio. Ma se poi lo vietano? E se prendo freddo e mi vien la febbre? Forse è meglio che non mi iscrivi”.

Rispetto ogni regola, farò quel che si chiede, come lo faranno i miei bambini. Ma sarebbe bello che ci si riflettesse davvero, profondamente, su quanto e come stia cambiando per i più piccoli il concetto stesso dello stare insieme, del condividere, del fidarsi e affidarsi all’altro. Del vivere o non vivere esperienze, dell’aver paura a priori di ciò che non si può conoscere, del temere di ammalarsi, dell’aiutare l’altro avvicinandolo o tenendolo lontano.