Milano, “Ma noi ricostruiremo”. In mostra immagini di resistenza e coraggio

Il secondo Dopoguerra e la pandemia: sono situazioni che forse, dal punto di vista concreto, non hanno quasi nulla in comune ma idealmente possono portare alla luce allo stesso modo il coraggio, la speranza e la voglia di rinascita delle persone. È il filo conduttore di una mostra allestita nella Sala delle Colonne delle Gallerie d’Italia di Milano fino al 22 novembre 2020  “Ma noi ricostruiremo”. La Milano bombardata del 1943 nell’Archivio Publifoto Intesa Sanpaolo, che dimostra la resilienza e il coraggio della popolazione milanese. Ieri come oggi. 

Molto si è distrutto, ma noi tutto ricostruiremo con pazienza e con la più fiduciosa volontà”, è una frase di Antonio Greppi (Angera 26 giugno 1894-Milano 22 ottobre 1982) sindaco (1946-1951) della Milano della Liberazione e della Repubblica, che dà il senso all’esposizione fotografica, promossa da Intesa Sanpaolo, sulla Milano distrutta dalle bombe del ’43, raccontata dagli scatti dell’Archivio Publifoto (1) selezionati da Mario Calabresi, giornalista, già direttore della “Stampa” e di “Repubblica” e scrittore (il suo nuovo libro in libreria è “Quel che non ti dicono” Mondadori 2020), curatore della mostra, da noi intervistato, e contestualizzati dallo storico Umberto Gentiloni

Accanto a questi scatti, sono messe a confronto le fotografie delle vie semi-deserte durante la pandemia da Covid-19, opera del fotografo torinese Daniele Ratti, il quale ha potuto osservare una Milano inconsueta, immobile e vuota. 

Come è nata l’idea della mostra? 

«L’idea della mostra è nata durante una visita un anno fa all’Archivio Publifoto, che oggi è conservato a Milano nel sotterraneo del caveau di una filiale di una banca che attualmente è chiusa. Hanno utilizzato questo spazio per conservare, mettere in sicurezza sette milioni di provini, negativi, stampe e tutta la parte di documentazione di archivio. Sono rimasto affascinato da questa mole di documenti. Questo è probabilmente il più interessante archivio foto giornalistico del Novecento, che copre Milano ma anche tutta l’Italia e che va dagli Anni Trenta fino alla fine del secolo scorso. Ho pensato che fosse interessante farne delle mostre, facendolo conoscere al pubblico. L’esposizione fotografica raccoglie settanta scatti selezionati tra 3300 che riguardano i bombardamenti. Di queste settanta foto, ne abbiamo scelte 11 che ritraggono luoghi simbolo di Milano, tra i quali: Piazza Fontana, la Galleria Vittorio Emanuele II, Piazza San Fedele, L’Università Statale-ex Ospedale Ca’ Granda, Brera. Abbiamo ingrandito le foto, due metri di altezza, e il fotografo Daniele Ratti ha fotografato durante il lockdown quegli stessi luoghi esattamente dalla stessa inquadratura. Ciò vuol significare due cose: testimoniare come Milano fosse distrutta e come si è ricostruito, e far vedere come oggi in quel momento fossero completamente assenti le persone. Allora tra le macerie i milanesi cercavano di sistemare, riordinare dandosi da fare. Oggi quei luoghi sono ricostruiti integri ma durante l’isolamento c’era una totale assenza di persone, salvo qualche raro passante con la mascherina». 

Allora le macerie, oggi l’assenza di persone e di auto. Ieri come oggi la volontà di ricostruire, la speranza e la capacità di ripartenza sono le stesse?

«Noi oggi ci troviamo di fronte a una sfida inattesa, una sfida che molti hanno paragonato a una guerra, però la pandemia è molto diversa da quella che fu la guerra reale, pensiamo ai bombardamenti. Allora avevamo fuoco, fiamme, macerie, distruzione. Oggi abbiamo vuoto, silenzio, assenza. Quello di chi abbiamo bisogno è la stessa capacità di reagire, ricostruire e ripartire. La mostra fotografica non vuole dare un giudizio su chi siamo oggi, ma essere uno stimolo per noi ad agire come fecero allora i nostri nonni».

Ha scelto le foto dopo un importante lavoro di schedatura e digitalizzazione delle circa 3.300 immagini risalenti a quel periodo. Qual è stata la fotografia che più l’ha colpito?

«A me ha colpito questo: la gigantesca Ca’ Granda, l’ospedale dei poveri voluto da Francesco Sforza una delle prime opere rinascimentali di Milano. Inaugurato nel 1472 funzionò come ospedale fino alla guerra. Dopo i bombardamenti era completamente ridotta in cenere. I lavori di ricostruzione durarono 37 anni e si conclusero definitivamente solo nel 1984. Con la sua inaugurazione, nel 1958, la Ca’ Granda cominciò la sua seconda vita come sede dell’Università degli Studi di Milano».

L’esposizione fotografica può dimostrare che le conseguenze economiche, sociali, emotive di una guerra sono simili a quelle di una terribile pandemia come quella che stiamo vivendo sulla nostra pelle? 

«Penso che guardando questa mostra ci si renda conto che le due cose non sono comparabili. Oggi siamo nelle nostre case, dobbiamo difenderci da un nemico invisibile, e questo è già di per sé terribile, però abbiamo l’acqua, la luce, il cibo. Le immagini mostrano una Milano, dove non c’era più acqua, luce e gas, in cui la gente mangiava per la strada. Abbiamo paura del virus e il nostro disagio è fortissimo, però la nostra situazione non è paragonabile a un conflitto. Questo ci deve dire che possiamo ripartire. Dobbiamo ripartire». 

Il dialogo tra passato e presente, che si evince dalle foto esposte, sulla capacità di una società di costruire il futuro e creare un nuovo senso della comunità, filo conduttore della mostra milanese, può travalicare i confini locali ed essere di stimolo in questa penombra che stiamo attraversando? 

«Assolutamente sì. L’idea non è stata quella di fare una mostra milanese, abbiamo usato fotografie di Milano ma il messaggio vuol essere più largo, che raggiunga l’intera comunità nazionale». 

(1) – L’Agenzia Publifoto contiene circa sette milioni di fotografie, la maggior parte in bianco e nero, che raccontano l’Italia tra gli anni Trenta e Novanta del Novecento. Cinque anni fa, per evitare che questo patrimonio andasse disperso o finisse negli Stati Uniti è stato acquistato da Intesa Sanpaolo, che lo ha inserito nel suo Archivio Storico per valorizzarlo in quanto bene culturale nazionale.