“Gli anticorpi della solidarietà”. Intervista a Federica De Lauso, curatrice del Rapporto 2020 della Caritas sulla povertà.

“Nell’ultimo anno coloro che si rivolgono per la prima volta alle Caritas diocesane passano dal 31% al 45%”. Minori, donne, uomini e anziani aiutati mediante “Gli anticorpi della solidarietà”, titolo del Rapporto 2020 sulla povertà della Caritas italiana presentato durante la giornata mondiale di contrasto alla povertà, avvenuta lo scorso 17 ottobre. 

La fotografia mette in luce i gravi effetti economici e sociali dell’attuale crisi sanitaria, legata alla pandemia da Covid-19. I dati della statistica pubblicata, definiscono lo scenario entro il quale ci muoviamo: l’Italia registra nel secondo trimestre del 2020 una marcata flessione del Pil, la più preoccupante dall’avvio delle serie storiche (-12,8%); l’occupazione subisce un duro scossone, registrando un calo di 841mila occupati rispetto al 2019; diminuisce, inoltre, il tasso di disoccupazione a favore di una vistosa impennata degli inattivi (in questo tempo, dunque, si smette di cercare un lavoro). 

Ecco perché tra marzo e maggio 2020 circa 450mila persone sono state sostenute dalle Caritas diocesane. Infatti: «Gli interventi della rete Caritas sono numerosi e diversificati.  Abbiamo voluto intitolare il Rapporto 2020 “Gli anticorpi della solidarietà” per evidenziare l’importanza di questa rete sul territorio. Sono stati circa 62mila i volontari attivi su tutto il territorio nazionale, che hanno aiutato anche gli operatori della Caritas. Molti di questi volontari sono giovani, nuove leve, oltre 5000, che si sono dati da fare. È un’Italia bella, importante, che risponde alle emergenze e che è a supporto di quello che è il ruolo delle Istituzioni e ha permesso anche a tante persone, non solo di avere beni materiali ma anche un orientamento rispetto alle misure prese dal Governo. Abbiamo rilevato nel Rapporto 2020 che circa 27mila persone hanno fatto riferimento alla Caritas per chiedere aiuto in termini di orientamento sui vari bonus, sul Reddito di emergenza (REM) rispetto alla cassa integrazione e così via. La Caritas quindi non ha svolto solo un ruolo legato ai beni di prima necessità, ma ha anche favorito una migliore trasmissione di informazioni utili per chiedere aiuto poi al Governo centrale», sottolinea Federica De Lauso, sociologa, specializzata in metodologia e tecnica della ricerca sociale presso Caritas Italiana – Ufficio Studi, curatrice insieme a Nunzia De Capite di “Gli anticorpi della solidarietà”, da noi intervistata, che illustra i risultati del Rapporto Caritas 2020 sulla povertà e l’esclusione sociale. 

Dottoressa De Lauso, è vero che l’identikit della nuova povertà ha il volto di una donna? 

«Sì, abbiamo realizzato nel Rapporto 2020 un focus sui dati dei Centri d’ascolto Caritas, quindi abbiamo confrontato le informazioni raccolte nel periodo maggio-settembre 2020 con quelle raccolte dagli stessi centri nello stesso periodo nel 2019. Abbiamo identificato quello che è il nuovo profilo di povertà. Appunto, tra le varie novità abbiamo riscontrato un incremento della componente femminile. In questo tempo difficile, emergenziale legato alla pandemia da Covid-19 aumentano le donne, che sono più svantaggiate anche sul fronte occupazionale, lo sappiamo, e che si fanno portavoce dei bisogni dell’intero nucleo familiare. Accanto alle donne aumentano anche i giovani, abbiamo parlato di “una nuova normalizzazione della povertà”, un po’ com’era successo dopo la crisi del 2008, la povertà sembra allargare un po’ i propri confini per andare oltre la grave marginalità, i volti dei poveri già conosciuti. La nuova povertà tende ad arrivare a quelle famiglie, che fino a ieri non avevano mai avuto bisogno di aiuto. Il tutto si lega inevitabilmente al lockdown, al blocco delle attività, ma anche a tutta la fatica che sul fronte lavoro in questi mesi si sta registrando». 

Nell’Italia pre Covid-19 era in diminuzione la povertà assoluta? 

«Gli ultimi dati pubblicati nel giugno 2020 fotografavano un’Italia nella quale la povertà assoluta era in vistoso calo, anche se si contavano nell’Italia pre Covid circa quattro milioni e mezzo di poveri che però erano scesi rispetto al 2018. Nel Rapporto Istat si legge che è un po’ tutto collegato all’introduzione del Reddito di cittadinanza, che ha favorito un innalzamento dei consumi e di conseguenza delle spese delle famiglie. Sottolineiamo nel Rapporto 2020 che questo trend, della discesa della povertà nel nostro Paese, molto probabilmente non sarà confermato l’anno prossimo con i dati del 2020, considerato il tempo di pandemia che stiamo vivendo. I segnali che provengono dai Centri d’ascolto Caritas confermano purtroppo una nuova crescita della povertà. Avevamo iniziato a registrare timidi segnali di miglioramento, ma la pandemia si è abbattuta su un Paese, il nostro, che anche se registrava un miglioramento sul fronte sociale, ancora era molto fragile dal punto di vista economico. L’Italia ancora non si era ripresa dalla crisi del 2008. Eravamo un Paese in cui l’economia era stagnante e cresceva solo dello 0,03%». 

Resta ancora molto alto il peso della povertà tra i minori? 

«Sì, oltre 1,1 milioni di bambini e ragazzi sono in stato di povertà. Il nuovo profilo di poveri, come dicevo, riguarda famiglie con minori che vanno ad aumentare. È un fenomeno che preoccupa, perché la povertà di un bambino, di un ragazzo, non ha una valenza solo per l’oggi ma pone degli interrogativi per il futuro, per quello che saranno le prospettive più limitate di questi ragazzi. Facciamo l’esempio della didattica a distanza: come Caritas abbiamo supportato tante famiglie, che erano impossibilitate ad acquistare gli strumenti della didattica a distanza. Anche qui si colgono delle disuguaglianze tra bambini che hanno potuto seguire con regolarità le lezioni a distanza e altri che, invece, per un periodo non le hanno proprio potuto seguire, oppure in altre situazioni hanno seguito con un cellulare, immaginiamo con quale difficoltà. Disuguaglianze che pesano su questi ragazzi e che condizioneranno il loro futuro anche alla luce del fatto che siamo un Paese a scarsissima mobilità sociale, i bambini che crescono in una situazione di povertà, faranno più fatica a raggiungere quelle posizioni sociali superiori alle loro condizioni di partenza. Occorrerebbe tentare di sradicare la povertà minorile, che è il nocciolo della questione, occorrerebbe intervenire là dove si intercettano i primi segnali di una povertà che coinvolge i bambini. Così si potrebbe migliorare la situazione sociale del nostro Paese». 

Durante il lockdown le Caritas diocesane hanno registrato un “disagio psicologico-relazionale”, nonché un accentuarsi di conflittualità di coppia e di rapporti genitori-figli, violenza, difficoltà di accudimento di bambini piccoli o di familiari colpiti da disabilità. Ce ne vuole parlare? 

«Anche qui ritorna il tema delle disuguaglianze. Se stare a casa per i senza dimora è stato un problema, perché una casa non la possedevano, è stato un problema anche per coloro che sono stati costretti a stare all’interno delle mura domestiche in situazioni familiari dove già erano preesistenti violenze e maltrattamenti. Durante il lockdown c’è stato un forte incremento di chiamate ai centri anti violenza, dalla nostra rilevazione è venuto fuori tutta questa difficoltà, che riguarda l’ambito relazionale, psicologico e il dramma di quei nuclei famigliari che avendo dei figli disabili erano abituati ad affidarli a centri diurni specializzati, famiglie che durante il lockdown sono state lasciate a loro stesse. Quindi non solo incremento della povertà in termini materiali, ma tante forme di vulnerabilità, che riguardano la sfera relazionale, psicologica e familiare». 

Il Rapporto 2020 ha messo in evidenza il fenomeno della “rinuncia o il rinvio di cure e assistenza sanitaria” determinato dal blocco dell’assistenza specialistica ordinaria e di prevenzione, che sembra riaffacciarsi ancora. In futuro, quale effetto potrebbe avere  questo fenomeno sul piano del carico assistenziale e del profilo epidemiologico del nostro Paese? 

«Questa preoccupa, perché nella fase più cruenta dell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo alcune visite di routine, alcuni esami sono stati bloccati. Poi c’è anche da considerare la questione psicologica delle persone che hanno preferito, e ancora preferiscono rimandare controlli e visite, perché hanno paura di contrarre il virus nelle strutture sanitarie. Tutto ciò preoccupa per il futuro, ciò viene testimoniato dalle “antenne” dei nostri centri di ascolto». 

Il Rapporto ha rilevato una fase di lenta e incerta ripresa nel periodo giugno – agosto 2020, è calato il numero degli assistiti. Adesso siamo in autunno, abbiamo davanti a noi un lungo e gelido inverno, la seconda fase della pandemia ha travolto l’Italia che è stata suddivisa in tre zone (rossa, arancione e gialla) in base al DPCM dello scorso 4 novembre con misure differenziate a seconda del livello di gravità della diffusione del virus. Corriamo il rischio di nuove emergenze economiche? 

«Il rischio c’è, è visibile e si prefigura. Questi lockdown, che ci sono in alcune parti d’Italia, sono necessari per contenere il rischio del contagio, però tutto fa già presagire delle difficoltà legate a chi è nel commercio e ai lavoratori autonomi. Durante il lockdown abbiamo aiutato e supportato circa duemila piccoli imprenditori, piccoli commercianti, che hanno fatto fatica. A livello diocesano sono stati istituiti tanti fondi di solidarietà per supportare le spese più urgenti, per esempio il pagamento del mutuo o dell’elettricità. Questa situazione spaventa, è probabile che a tutto questo corrisponda una nuova fragilità delle famiglie italiane. Lo confermano anche i dati pubblicati da Banca d’Italia, riferiti a un’indagine straordinaria sulla condizione economica delle famiglie e sulle aspettative durante la crisi legata alla pandemia di Covid-19, che ha evidenziato nel periodo più cruento dell’isolamento, per la metà delle famiglie italiane, una riduzione nel reddito, anche tenendo conto degli eventuali strumenti di sostegno ricevuti, addirittura per il 15% del campione il calo è di oltre la metà del reddito complessivo».