C’è poesia nelle crepe dei muri della pandemia

Maria Zambrano, filosofa e saggista spagnola del secolo scorso, scriveva che la poesia è «incontro, dono, scoperta venuta dal cielo». Parole solo apparentemente leggere, capaci oggi di attraversare "la grande paura"

“Mi chiudo e socchiudo/ fino a temere le persone,/ senza nessuno che mi si avvicina./ Nello sperare che il tempo passi/ temo la vita mia/ e quelle che vicine mi sono./ Il mio cuore viene riempito di fede,/ ma giace in me il nero/ a questa vita dura io mi ripongo/ la sorte mia accetto”.

Hamza Yaafour

E’ la poesia, dal titolo “Il giorno dopo”, di una studentessa dell’IIS (Istituto di Istruzione Superiore) “Primo Levi” di Vignola (Modena) composta nello scorso mese di marzo al tempo del primo attacco del virus.  Il dirigente scolastico, Stefania Giovanetti, in occasione della “Giornata mondiale della Poesia” indetta dall’Unesco, aveva proposto agli studenti di “condividere a distanza pensieri, sentimenti, emozioni, riflessioni, paure, scrivendo una poesia sul tema della perdita della socialità, sulla solitudine, sul rischio reale e concreto di uno stravolgimento di gerarchie e valori. Insomma, poesia e vita al tempo della pandemia”. Un’idea subito accolta.

Oggi quelle poesie, come altre che si possono leggere navigando in Internet, risuonano più che mai attuali. Dicono molto in sé stesse, dicono che la poesia è stata e può ancora essere un affresco con i colori della vita su un muro di un solo cupo colore.

Maria Zambrano, filosofa e saggista spagnola del secolo scorso, scriveva che la poesia è «incontro, dono, scoperta venuta dal cielo».  Non è chiudere gli occhi davanti a una realtà che si presenta come un’impenetrabile cortina ma è tenere gli occhi aperti per scorgervi delle crepe e scoprirle feritoie che consentono l’infiltrarsi di una luce inattesa.

La filosofia che, scrive Maria Zambrano, è compagna di strada della poesia, si ferma ai piedi di quella cortina, ammette di non avere la forza per superarla.

A confermare il limite e a lasciare il passo alla poesia è stato nei giorni scorsi il filoso Umberto Galimberti in un’intervista televisiva sui linguaggi nel tempo del contagio.

La poesia con la sua apparente leggerezza, attraversa le crepe del muro della pandemia ed è particolarmente significativo che siano dei giovani a farlo notare con un percorso interiore che si conclude con un messaggio fatto di parole fragili che hanno il coraggio di contrapporsi al mutismo di un feroce aggressore.

Sembra impossibile: la piccola poesia contro la grande paura, la grande angoscia, il grande disorientamento.

Prima di ricevere, nel 1975, il Premio Nobel per la letteratura Eugenio Montale affermava: “Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile…”.

La domanda, anche nel tempo della pandemia, è allora sul significato che la cultura del fare, dell’avere, del consumare, dell’apparire attribuisce all’utile e all’inutile.