Regioni e Stato

Il ritorno al centralismo statale non serve (immagine: la proposta della Fondazione Agnelli)

Paola Taverna, vicepresidente del Senato, esponente di primo piano dl M5S, ha chiesto di rivedere il rapporto Stato-Regioni e di riportare la Sanità in capo allo Stato. Il Fatto Quotidiano, house organ del medesimo partito, propone, in un articolo firmato da Filoreto D’Agostino, l’abolizione delle Regioni e la loro riduzione a Enti di servizio amministrativi. Se si tratta di boutades, bisogna ricordare che il partito che le lancia in piazza ha il 32,7% dei voti e 133 seggi in Parlamento e attualmente occupa posti-chiave nel Governo. Il punto di partenza delle loro proposte è la gestione anarchica del Covid. A loro fa da sponda l’immancabile Zagrebelski su Repubblica. 

Le Regioni e il decentramento non riuscito

Che sia necessario un ripensamento del regionalismo lo va dicendo da tempo Piero Bassetti, primo “governatore” e padre fondatore della Regione Lombardia. Se l’istituzione delle Regioni, prevista dalla Costituzione e attivata solo nel 1970, aveva come scopo di rimediare al centralismo monarco-piemontese del 1861, al “mandarinato di Stato della burocrazia centralista” e di sanare la frattura storica tra Nord e Sud, siamo costretti a constatare che l’impresa non ha avuto successo.

Piero Bassetti, primo presidente della Regione Lombardia

La burocrazia continua a detenere le chiavi della Repubblica, lo squilibrio tra Nord e Sud si è aggravato. Fa notare Piero Bassetti, che se nel 1870, fatto 100 il reddito pro-capite nazionale, Il Nord era livello 110 e il Sud a 90, oggi il Nord è al 120, il Sud a 65.

Il passo in avanti, costituito dal Nuovo Titolo V della Costituzione del 2001, per un “regionalismo ideale” che ridefinisse i rapporti tra la Repubblica e lo Stato, non ha modificato il “regionalismo reale”, iniziato nel 1970. I Livelli Essenziali di Prestazione, che dovevano definire la qualità minima indispensabile delle prestazioni del Welfare e che dovevano valere per tutto il territorio nazionale, sono stati scritti sulla sabbia, perché le Regioni non sono riuscite ad accordarsi su dove fissare l’asticella: chi in alto, chi in basso.

E lo Stato? Immoto. Ha finito per prevalere l’inerzia della spesa storica, che è diventata un vincolo e una zavorra.

Ciascuna Regione ha camminato per conto proprio. La spesa sanitaria è stata amministrata/distribuita da ogni Regione secondo calcoli politico-elettorali diversi e divergenti, fatalmente condizionata dalla qualità delle società civili regionali. In una società civile, eventualmente permeata, fin dentro le famiglie, dalla camorra, dalla Sacra corona unita, dalla ‘ndrangheta e dalla mafia, la politica e l’Amministrazione pubblica hanno finito per rispecchiarne i fenomeni piuttosto che contrastarne la crescente degenerazione. Dopotutto, il consenso è il nuovo il vitello d’oro della politica. Al “caval donato” del consenso non si guarda in bocca.

Il vice presidente della Regione Calabria Nino Spirlì
con Matteo Salvini

La Calabria è l’emblema di questo disastro “democratico”. Ma é solo la punta visibile dell’iceberg. L’intreccio tra politici e apparati amministrativi regionali ha portato a corruzione, a selezione avversa del personale tecnico, a inefficienza, fino a dover ricorrere, per compensare l’illicenziabilità del personale inefficiente e impreparato, all’esternalizzazione delle funzioni. Attorno alle Regioni è nata una galassia costosa e pressoché inutile di Enti… inutili. Basterà ricordare, come ultimo, la famosa Film Commission Lombardia, di cui sono soci Regione Lombardia e Comune di Milano e il cui scopo è quello di promuovere sul territorio lombardo la realizzazione di film, fiction TV, spot pubblicitari, documentari e di ogni altra forma di produzione audiovisiva per aumentare la visibilità del territorio lombardo ecc…

Gli “stipendi” dei Consiglieri regionali, originariamente fissati quali forme di autofinanziamento per i partiti e per i singoli, a fini di prossima campagna elettorale e/o di rielezione, arrivano ormai fino a 10 mila euro lordi mensili, di cui solo 6 mila circa tassabili. Discorso a parte meriterebbe la faccenda delle Regioni a Statuto speciale. L’unica davvero meritevole di tale qualifica è ormai la Provincia autonoma dell’Alto Adige, per ragioni internazionali ben note. Per le altre il titolo è obsoleto e fasullo. 

Partire dalla constatazione di questa realtà è la pre-condizione per reagire al neo-statalismo centralistico di ritorno, che approda con un salto mortale all’indietro alle circoscrizioni politico-amministrative progettate dal Ministro dell’Interno Carlo Farini nel 1860 e, infine, ai Prefetti di  Bettino Ricasoli, nel 1861, che applicò il modello francese all’organizzazione dello Stato italiano. 

Se l’attuale status quo è indifendibile, ancor meno lo è il ritorno allo Statuto albertino-piemontese e all’intreccio paralizzante della burocrazia piemontese con quella borbonica, che governa tuttora il Paese.

Diminuire le Regioni

Che fare, dunque?  Intanto, occorre diminuire il numero delle Regioni. 

Con quali criteri? Quello storico, che tiene conto della storia d’Italia, articolata per mille e trecento anni dal 568, anno dell’invasione longobarda, in numerose unità politico-territoriali sovrane, che hanno plasmato storia e geografia del Paese. E quello geo-economico, che muove dalla vocazione produttiva nazionale e sovranazionale dei territori regionali, in una prospettiva europea, nella quale sono motore di sviluppo le città metropolitane e le Regioni, tra loro collegate da correnti produttive e commerciali che passano sotto i confini nazionali. Basterà pensare alla relazione speciale tra la Baviera, da una parte e Lombardia, il Veneto e l’Alto Adige. 

Nel marzo del 1992, dopo la tempesta geo-politica del 1989, che aveva travolto il sistema politico italiano, la Fondazione Agnelli aveva fatto una proposta di assetto regionale della Repubblica, dimensionato su dodici Regioni: 1. Piemonte, Valle d’ Aosta e Liguria tranne la provincia di La Spezia; 2. Lombardia; 3. Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia; 4. Emilia-Romagna, con la provincia di La Spezia; 5. Toscana, con la provincia di Perugia; 6. Marche, Abruzzo, Molise; 7. Lazio, con la provincia di Terni; 8. Campania, con la provincia di Potenza; 9. la Puglia, con la provincia di Matera; 10. Calabria; 11. Sicilia; 12. Sardegna. 

Il professor Gianfranco Miglio (1918-2001)

Il progetto si presentava probabilmente più realistico del “Breviario di Assago” del 1993 di Gianfranco Miglio, già ricordato su queste pagine, che prevedeva un’Unione federale italiana, costruita su tre Repubbliche. Il progetto della Fondazione era piuttosto sulla scia di Carlo Cattaneo, che aveva proposto dapprima una Confederazione degli Stati pre-unitari e poi, preso atto del fallimento del suo progetto federalista, una Repubblica federale fondata sui Comuni, che Gioberti aveva definito sprezzantemente “repubblichette”.

Se i numeri delle Regioni sono più o meno opinabili, decisiva resta la questione dei poteri, dei quali il primo è quello fiscale. Il modello svizzero con tre livelli di imposizione fiscale – comunale, cantonale, federale – resta il più trasparente e il più efficiente. A questo punto si levano dal Sud alti lai – l’ultimo è quello di Roberto Napolitano sul Quotidiano – che gridano al “federalismo dei ricchi” e all’alleanza tra Lega e sinistra padronale. Tanto nella Svizzera dei Cantoni quanto nella Germania dei Länder lo Stato federale ha sempre governato gli egoismi dei ricchi e redistribuito verso i Cantoni/ Länder più poveri. Si può/si deve fare anche in Italia.

Se l’assetto istituzionale ed amministrativo del Paese si è dimostrato da decenni incapace di fornire un quadro allo sviluppo in epoca di globalizzazione, il Covid ha squarciato definitivamente il velo che copre l’obsolescenza e la miseria delle istituzioni istituzionale della Repubblica.

Ha fatto notare Piero Bassetti, commemorando i 50 anni della Regione Lombardia, che l’internazionalismo conflittuale e il sovranismo –  pesante o leggero – degli Stati sovrani, ancora regolati dalla logica di Westfalia, non basta a garantire lo sviluppo e le relazioni orizzontali delle economie e delle società. Riconoscere il ruolo decisivo dei Comuni e delle Regioni significa “ridefinire gli strumenti per la trasformazione dei valori in potere”, cioè rinnovare le istituzioni. E’ questo il contenuto più nobile della politica. Qui si parrà la sua nobilitate. Forse…

  1. Questi temi, che, a mio modesto parere, non sono alla portata di tutti, vengono semplificati, con opinioni di pochi, dalla complessità degli argomenti che hanno portato i parlamenti(fin dall’inizio dell’unione d’Italia) a far sì che venissero messi in luce, per poi approvarli solo da coloro che ne avevano strumento di conoscenza, e cioè, la nobiltà prima e la borghesia dopo!Dal dopoguerra ’40/45′, chi poteva parlare di Stato con cognizione di causa? Dotti e professori che con laurea si poteva permettere di formulare anche delle possibili “varianti” in base alla propria cultura originaria; ora possiamo contare su una pletora di personalità che gettano delle proposte che si ispirano al “movimento di pancia” per solo consenso elettorale, ma che niente hanno a che vedere, visto la complessità a cui siamo oggi impantanati, di fare quelle riforme che i cittadini ne siano veri beneficiari! Fatta questa premessa, desidero esprimere quello che invece ritengo doveroso venga fatto da parte della classe politica: semplificare, rendere più agile un sistema che sta diventando sempre più oneroso per i cittadini, accorpando o dividendo, come del resto previsto dalla Costituzione e che non creino doppioni burocratici! La doppia camera è un intralcio alla semplificazione, e alla velocità con cui vengono promulgate le leggi con una ragione in più, che è il terzo incomodo, il Parlamento Europeo, a mio parere anch’esso obsoleto, di cui è necessario tenere conto. La sua sopravvivenza(Europa) è strettamente legata alla esistenza o meno dei parlamenti di ogni singolo Stato! Spero non si arrivi ad avere 2/10, 20, ecc. Repubbliche o dittature, che desiderano essere autonome distaccandosi totalmente dalla unità italica ed Europea, che con tanto sangue avevamo raggiunto. Il dopo Covid prefigurerà tutto ciò che le macerie del nostro passato avranno prodotto e, che il cielo ce la mandi buona, si possa trovare le soluzioni più adeguate senza egoismi di parte, ma con unica voce di intento!: non più guerre ma Pace!!! Pace, Pace…

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