Avvento, attesa

Ma l'attesa è assediata dalle nostre paure

Arriva l’avvento. Ma con tutte le urgenze che ci sentiamo addosso si ha più paura che speranza quando si guarda al futuro. E anche il Natale… Giulio

Caro Giulio, ogni anno la Chiesa ci dona di rivivere il tempo liturgico dell’Avvento come memoria della venuta del Signore: sappiamo bene che il Signore è già venuto, ma anche che deve ancora ritornare. Noi lo attendiamo ricordando e attualizzando questo evento fondante la nostra fede, ma anche sapendo che la nostra attesa si compirà quando il Signore ritornerà nella sua gloria.

L’attesa e la notte

Giustamente tu esprimi tutta la preoccupazione per la complessità di questo tempo, per le urgenze che lo abitano, per i problemi che ci affliggono e minano il clima di pace e serenità del prossimo Natale sino a far perdere la speranza nel futuro.

“La notte è simbolo
dei tempi oscuri della storia,
delle tenebre
che avvolgono
i singoli e l’umanità,
del male che perversa
in ogni tempo,
della tentazione
dell’incredulità
che ha attraversato
ogni epoca”.

La parola di Dio di questo tempo è un invito incessante alla vigilanza, all’attesa del Signore, poiché egli ritornerà nella notte.

Nella notte siamo invitati a tenere gli occhi ben aperti per non lasciarci vincere dalla pesantezza del sonno e non lasciarci avvolgere dal buio che opprime. La notte è simbolo dei tempi oscuri della storia, delle tenebre che avvolgono i singoli e l’umanità, del male che perversa in ogni tempo, della tentazione dell’incredulità che ha attraversato ogni epoca.

La venuta del Signore non cancella tutto questo, non risolve i problemi che dobbiamo affrontare noi come fedeli amministratori della vita che Lui ci ha donato.

Abituati a vivere l’attesa del Natale in un clima un po’ ovattato dimentichiamo che

Gesù è nato in un tempo complesso e difficile più del nostro, in una terra occupata dai Romani

che certamente non erano pacifisti, ma profondamente violenti e in un popolo ferito dall’occupazione e con frange rivoluzionarie.

La chiesa primitiva si è costruita nel tempo a partire da Cristo nella sua drammaticità, nella sua continua lotta e sofferenza. Allora la “notte” dei tempi è lo spazio nel quale il credente deve convivere e imparare ad abitare con speranza acuendo lo sguardo interiore per imparare a vegliare, come sentinelle, e intravedere la luce del Signore che continua a essere presente, perché è il Dio con noi.

“Sentinella, cosa vedi nella notte?”

Abitare la notte accrescendo lo sguardo interiore, lottando contro ogni pigrizia e negligenza, ogni superficialità e mondanità, vincendo le tentazioni del male che ci abitano, per seguire le tracce della grazia che è presente in noi. È vigilare presenti a noi stessi, essere in ciò che siamo e facciamo. La frenesia del nostro tempo ci induce a correre, sempre un passo più avanti di quello in cui siamo, continuamente fuori di noi, non con un atteggiamento di dono, ma di lontananza dal centro vitale del nostro cuore.

Viviamo in una specie di stordimento provocato da cose in sé anche buone come gli affanni della vita, le preoccupazioni e le ansietà con la conseguente incapacità a cogliere il momento che si vive.

Vegliare è non perdere di vista noi stessi, è vivere e non lasciarsi vivere, perdendo il contatto con noi stessi. La vigilanza redime il tempo, insegna la sapienza del vivere sensatamente i giorni, pochi o tanti, brevi o lunghi che ci sono dati.

Nella notte del Natale chi ha saputo riconoscere in quel bambino il Figlio di Dio, sono stati i pastori: uomini poveri, ignoranti, ma fedeli al loro lavoro di vegliare sul gregge. Saper vegliare per imparare a discernere i segni della sua presenza nell’oggi, nella concretezza del quotidiano, nella durezza del quotidiano. Qui sta la sorgente della nostra speranza: “Quanti sperano nella venuta del Signore riacquistano la forza, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi”. Una speranza che a volte può anche affievolirsi o venir meno, e ci trova stanchi e affannati, ma la venuta del Signore dà questa forza interiore che permette di fare della vita una corsa dietro a Lui.

“Dio ci ha fatto speranza. Ha cominciato.
Ha sperato che l’ultimo dei peccatori
lavorasse almeno un po’ alla sua salvezza”
(Charles Péguy, foto)

Charles Péguy così descrive poeticamente la speranza: “È lei, quella piccina che trascina tutte. Perché la fede non vede che quello che è. E lei vede quello che sarà. La carità non ama che quello che sarà. Dio ci ha fatto speranza. Ha cominciato. Ha sperato che l’ultimo dei peccatori lavorasse almeno un po’ alla sua salvezza, sia pure poco poveramente, che ne sarebbe occupato un po’. Lui ha sperato in noi, sarà detto che noi non spereremo in lui? (…) Egli ha messo nelle nostre mani, nelle nostre deboli mani, la sua speranza eterna, nelle nostre mani passeggere. Nelle nostre mani peccatrici. E noi, peccatori, non metteremo la nostra debole speranza nelle sue mani eterne?”.