Ci eravamo abituati ad augurare la pace in terra agli “uomini di buona volontà”. E quella frase è entrata anche nei nostri modi correnti di dire, per designare un tipo di umani positivi, costruttivi, creatori di legami, capaci di perdonare: “di buona volontà”, appunto. Adesso, apparentemente, cambia tutto. Gli “uomini di buona volontà” sono diventati “uomini amati dal Signore”. Perché?
Il messale che si usa nelle messe è la traduzione italiana del testo ufficiale che è in latino. Il testo latino recita: “et in terra pax hominibus bonae voluntatis”: “pace in terra agli uomini di buona volontà”. Dunque la vecchia traduzione era alla lettera, ineccepibile. Solo che qui le cose si complicano. La frase, infatti, viene dal vangelo, Luca, capitolo 2. Vi si racconta della nascita di Gesù, della visita dei pastori e del canto degli angeli sopra la grotta di Betlemme: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama”. Il testo greco, tradotto alla lettera, dice “e in terra pace agli uomini del (suo) beneplacito”, oppure: “della (sua) benevolenza”, della eudokia divina: “gli uomini che Dio ama,” o “amati dal Signore”, come traduce, correttamente, la versione ora in uso nella liturgia.
Va ricordato che il testo latino del vangelo di Luca era quello della cosiddetta “vulgata”, versione ufficiale adottata dalla Chiesa, messa a punto da s. Girolamo, tra la fine del quarto e l’inizio del quinto secolo, sul testo greco detto “dei Settanta”. Quella versione è rimasta in uso fino alla riforma del Vaticano II, negli anni ’60 del secolo scorso. Gli esegetici moderni spesso fanno le pulci al buon san Girolamo: le sue tradizioni qualche volta non sono precise. È il caso del canto degli angeli a Betlemme e del “Gloria”. In ogni caso, però, si capisce che quella traduzione abbia pesato molto, anche con le sue imprecisioni, se non altro per la sua lunghissima storia. Nel nostro caso il testo latino di Girolamo, le traduzioni liturgiche successive avevano sostituito quello che era l’enunciato teologico della condiscendenza di Dio, con l’affermazione morale della buona volontà umana. Ora le due cose sono in rapporto, come è ovvio, ma non coincidono.
Oltretutto l’intero “Gloria” ha una struttura trinitaria, canto di lode per le tre Persone divine: “Signore Dio Padre onnipotente… Signore Figlio unigenito Gesù Cristo… con lo Spirito santo”. Particolarmente vistosa la seconda parte che acclama e invoca l’Agnello immolato e vivente, nostra Pasqua. La solennità dell’intero testo è dunque strettamente al servizio del suo carattere pasquale. L’inno si chiude con la proclamazione di fede che la Chiesa di rito bizantino mette sulle labbra dei fedeli al momento della comunione: «Tu solo Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo. Gesù Cristo, con lo Spirito santo, nella gloria di dio Padre».
L’aspetto più “teologico” della nuova traduzione è maggiormente in sintonia con tutta l’impostazione dell’inno e, se si vuole ancora più precisi, con l’impostazione della intera celebrazione eucaristica.
La reciteremo con particolare cordialità, nelle messe, anche se dimezzate dalla pandemia, il prossimo Natale.