Natale nell’era della fragilità: la fede aiuta a dare forma alla paura

Secondo Giuseppe Angelini, «per conoscere anche in quest’anno segnato dalla pandemia la grazia del Natale e la consolazione che viene dalla visita di Dio al suo popolo è necessario misurarsi con la paura. Mediante la parola evangelica la paura non viene superata, ma si può cercare di darle una forma: ciò che tutti stiamo sperimentando (un sentimento di paura, appunto, o per meglio dire di “inaffidabilità delle cose prossime”) andrebbe interpretato profeticamente, alla luce del messaggio cristiano. Si tratta di riconoscere nelle pieghe, nelle fratture dell’esperienza umana una possibile porta d’ingresso della Buona notizia». 

Nato a Livorno nel 1940, monsignor Giuseppe Angelini è stato ordinato prete nel 1968; noto per i suoi saggi di Teologia morale, ha insegnato per molti anni a Milano, presso la Facoltà di teologia dell’Italia settentrionale, di cui è stato anche preside; attualmente è in servizio nella parrocchia di San Simpliciano, attigua ai chiostri della stessa facoltà. Prendendo spunto da un suo editoriale appena pubblicato sulla rivista Teologia (La Chiesa e la città nel tempo della pandemia, scaricabile da qui), gli abbiamo chiesto di aiutarci a riflettere su quanto sta accadendo, anche in questo periodo di Avvento in cui i giorni continuano a essere scanditi dai comunicati pomeridiani con i numeri dei contagiati e dei morti di Covid-19. 

Mentre ci stiamo avvicinando al Natale, ci sentiamo non solo stanchi e preoccupati, ma anche un po’ storditi. La comunicazione pubblica pare cortocircuitata: da una parte si esorta alla prudenza, dall’altra si invoca un’attenuazione delle misure di distanziamento sociale, allo scopo di «salvare le feste»; si invitano i cittadini a evitare assembramenti e contemporaneamente si riaprono i centri commerciali. 

«Penso che anche in questo caso – come in tanti altri, o come sempre – la “narrazione” suggerita dalle forme della comunicazione pubblica sia distorta. Gli opinion maker suggeriscono nessi schematici e demagogici, mirati all’esito obbligato di deprecare l’incoerenza delle decisioni politiche. I problemi più veri e seri non sono quelli posti dalle decisioni delle autorità politiche, ma quelli posti della pandemia, dalla profonda alterazione che essa induce nella vita personale di tutti. Dal punto di vista sanitario, non abbiamo ancora – in Italia, ma non solo in Italia – evidenza chiara delle vie seguite dal contagio; le misure mirate a contenerlo sono in tal senso necessariamente congetturali e approssimative. Il guaio successivo e non necessario è la sovrapposizione ai criteri “scientifici” (ma quanta retorica sulla scienza!) di criteri demagogici. Per il secondo aspetto, quello dei vissuti personali, lo stordimento a cui lei accennava è figlio di un’“incertezza cosmica”. È venuto a mancare il mondo noto, per rapporto al quale soltanto era possibile pensare e dire, progettare il futuro e confermare le strategie. Senza un futuro ragionevolmente noto e affidabile si respira il carattere incerto e solo ipotetico di tutte le decisioni».  

Lei ritiene che questa emergenza sanitaria stia evidenziando le crepe, le contraddizioni del «modello di società» affermatosi nel corso dell’età moderna? Quello per cui sarebbe inutile e perfino dannoso affrontare pubblicamente la questione del «bene», in senso proprio, e lo Stato dovrebbe limitarsi a far rispettare una serie di norme pattuite?

«L’emergenza sanitaria evidenzia crepe e contraddizioni di un modello di società, ma più radicalmente il difetto di un modello di umanità, di vita buona, che è altra cosa che una vita grata. In non pochi casi ho constatato che l’emergenza sanitaria ha operato in senso positivo per quanto attiene alla vita domestica, e quindi al rapporto tra genitori e figli e anche al rapporto tra coniugi. In tal senso, l’emergenza mette in luce più chiara – semmai ce ne fosse bisogno – il guaio di fondo della cultura moderna e più ancora postmoderna, la distanza tra famiglia e società, a tutto scapito della famiglia. La famiglia costituisce uno spazio assolutamente essenziale della nostra vita, ma per sussistere ha bisogno di un orizzonte più ampio, quale quello disposto dalla società tutta; la prospettiva corrente della nostra cultura pubblica è invece quella che vede nella famiglia la sfera “privata”, che non ha bisogno di orizzonti ulteriori, o addirittura ha bisogno di mantenere una sostanziale distanza da quanto la circonda. Invece, non solo la famiglia ha bisogno della società, ma anche quest’ultima ha bisogno della famiglia, e della verità dell’umano che si manifesta originariamente nelle relazioni primarie. Senza bambini la società invecchia e decade; soltanto grazie alla dedizione ai piccoli i grandi ritrovano la verità dei loro rapporti. Spesso gli adulti vivono nella grande società come adolescenti che inventano di volta in volta loro immagine, la recitano piuttosto che viverla. Non credono in quel che fanno e fanno anche quello in cui non credono». 

In una fase di forzato distanziamento tra famiglia e società emergono con più evidenza questi aspetti abitualmente rimossi?

«Sì, aspetti che concernono sia le relazioni familiari, sia la vita sociale. Le prime soffrono dell’angustia degli spazi in cui sono relegate; la seconda del difetto dell’ingrediente della amicizia, di cui invece ha radicale bisogno. Lo smart working consente magari anche di realizzare la collaborazione funzionale necessaria, ma mancano opportunità di amicizia; mentre esse sono assolutamente essenziali, alla lunga, non solo per vivere ma anche per lavorare insieme».     

Nonostante tutto questo, però, si ha l’impressione che nella società civile l’uscita dall’emergenza sanitaria sia vista soprattutto come una possibilità di resettare tutto quanto, di tornare a ciò che si faceva normalmente in un recente passato.

«La questione più seria non è quella che riguarda il “fare”, ma il “pensare” e il “sentire”. È abbastanza ovvio che il desiderio diffuso sia quello di recuperare la normalità. Tuttavia, la normalità non è quello che si faceva prima, ma la disponibilità di un orizzonte condiviso, che consenta alla vita comune d’essere effettivamente comune. A proposito delle cose da fare, è facile immaginare che si possano elaborare progetti; a proposito del sentire e del pensare insieme, invece, non si possono definire progetti, si può soltanto desiderare che si realizzino le condizioni per stare insieme; soltanto attraverso la rinnovata pratica della vita comune – animata dalla gratitudine dopo il lungo digiuno – sarà possibile procedere all’invenzione di forme nuove dell’alleanza civile».  

La situazione di questi mesi non evidenzia anche i limiti di un certo discorso ecclesiale che tende a richiamare grandi principi ideali, nello stile di una carta delle Nazioni Unite? Si dice che la pandemia del Covid-19 avrebbe mostrato i limiti della scienza e della tecnologia, le conseguenze negative di un certo modello di sviluppo economico; che occorrerebbe avere un maggior rispetto degli ambienti naturali, anche per scongiurare futuri «salti di specie» dei virus. Idee in gran parte condivisibili, ma che non sembrano particolarmente legate allo specifico della fede cristiana.

«In una mia riflessione sull’esperienza di questi mesi ho fatto riferimento ad un testo di Franz Kafka, La tana, che mi sembra assai eloquente per intendere gli atteggiamenti spirituali alimentati dal distanziamento sociale. Il protagonista di questo racconto in prima persona è una strana creatura – non si sa se uomo o animale – che ha scavato appunto una tana nel sottosuolo, per difendersi da un ipotetico nemico esterno. L’anonimo costruttore continua ad ampliare i cunicoli del suo nascondiglio, sperando di poter infine riposare tranquillo, “in un punto che sia protetto da qualsiasi lato”. A un certo punto, però, egli incomincia a percepire un sibilo, una specie di fischio, a indicare una minaccia che viene dall’interno: “La vulnerabilità della tana – conclude – ha reso vulnerabile e suscettibile anche me”. La tana, costruita per difendersi dal pericolo – del contagio, ma più in generale dal pericolo della relazione sociale – alimenta una paradossale lievitazione di pericoli immaginari: non noti, e tuttavia efficaci nel loro potere di intimidazione. La somiglianza tra la sindrome descritta da Kafka quasi un secolo fa e la sindrome vissuta oggi da tutti noi istruisce a proposito di ciò che manca, nelle forme con le quali la predicazione ecclesiastica interpreta l’esperienza di questo tempo di pandemia. Prima ancora del riferimento evangelico (lo specifico della fede), manca la testimonianza di un’expertise a proposito dell’umano; parlo di quell’umano vero che è rimosso piuttosto che interpretato dai proclami dell’ONU».  

Per la Chiesa, la situazione attuale presenta anche delle chance? Non a livello bieco, opportunistico, come se della gente spiazzata e spaesata potesse più facilmente essere «ricondotta all’ovile», alla frequentazione delle Messe domenicali… Si dà, piuttosto, l’opportunità di riproporre la questione sulla vocazione dell’essere umano, sui motivi fondamentali per cui viviamo – e viviamo insieme, gli uni con gli altri?

«L’opportunità di cui lei dice non si può realizzare se non ad una condizione, che si esca da una declinazione ingenuamente “kerigmatica” del Vangelo. Per riproporre con verità l’annuncio di Gesù occorre passare per le crepe aperte dalla pandemia nell’umanesimo della società del benessere: bisogna saper riconoscere nelle pieghe, nelle fratture dell’esperienza umana della nostra epoca una possibile porta d’ingresso della Buona notizia. Anche nel tempo in cui ci troviamo a vivere, l’annuncio del Vangelo deve incontrare il vissuto degli uomini, non deve cadere loro addosso dall’alto».