Sequeri: “Ci sentivamo invincibili, ora abbiamo riscoperto il potere di uno sguardo”

Vaticano, 31 maggio 2020. Papa Francesco celebra la Messa per la Pentecoste. Fedeli in preghiera con la mascherina partecipano alla celebrazione.

Le mascherine chirurgiche fanno ormai parte della nostra esistenza e hanno lo scopo di ridurre la circolazione del Covid-19 nella vita quotidiana. Ma dietro quella mascherina protettiva c’è sempre uno sguardo, a volte di paura, a volte di sfida, spesso di empatia e talvolta di misericordia, considerato il momento particolare che stiamo vivendo. Infatti, la protezione della mascherina rende indistinto il profilo del viso ma in compenso rende più intenso il linguaggio degli occhi.

È su “Lo sguardo oltre la mascherina” (Vita e Pensiero 2020, pp. 112, 12,00 euro) che si sofferma il teologo, musicologo, musicista e docente Pierangelo Sequeri, preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le Scienze del matrimonio e della famiglia, e membro della Commissione Teologica Internazionale. 

Il volume raccoglie nella prima parte la serie di articoli che l’autore ha scritto sul quotidiano di ispirazione cattolica “Avvenire” nei mesi di marzo e aprile 2020, una sorta di diario teologico, composto nei mesi più duri quando la pandemia di coronavirus nel nostro Paese ha falciato una generazione senza pietà. La seconda parte del testo, invece, riporta gli articoli scritti da Sequeri sempre su “Avvenire” nel 2015/2016, in occasione del Giubileo della Misericordia. 

Ora che l’intero Pianeta è ancora attonito, sperando che una terza ondata non avvenga mai, è logico che anche nei prossimi mesi, come accade già da un anno, i nostri migliori alleati contro il Covid–19saranno ancora mascherine, distanziamento sociale e igienizzazione delle mani, consapevoli che c’è anche un vaccino e che probabilmente si tornerà alla normalità entro la fine del 2021, o almeno lo speriamo tutti vivamente. 

Mai come adesso è fondamentale riconoscere la profondità e la potenza di uno sguardo buono, quello che ospita in sé la nostra fragile condizione umana, come la stessa pandemia ci ha insegnato. Abbiamo intervistato Mons. Sequeri autore di numerosi volumi di teologia fondamentale, in particolare sui rapporti tra estetica e teologia.

Mons. Sequeri, nel saggio introduttivo scrive che “Il Covid-19, nella semplicità dei suoi dispositivi di produzione e distribuzione, ha mostrato di essere in grado di battere, in pochi giorni, la complessità di tutti i nostri presidi tecnici di immunizzazione”. Desidera chiarire la Sua riflessione?

«La somiglianza di questo virus con quelli di cui eravamo relativamente preparati a contenere la diffusione e a contrastare la patologia, ci ha tratti in inganno a riguardo della sua differenza: alla rapidità della sua diffusione e alla criticità dei suoi effetti eravamo impreparati. Oltre una certa soglia, il numero dei contagi e l’incertezza dei rimedi hanno prodotto un effetto di collasso del sistema sanitario e sociale di prevenzione e di cura. Di fatto, però, su tutti questi punti, abbiamo dovuto fare i conti con un grande numero di incertezze alle quali non eravamo preparati. Come ha fatto a passare così “inosservato”? Come ha superato le barriere della nostra “prevenzione”? E parliamo di paesi ai più alti livelli di risorse economiche, di dotazioni tecnologiche, di organizzazione sociale. Di fatto, la misura più efficace per erigere una barriera è stata quella di “fermare il mondo” che abbiamo costruito e di “presidiare le relazioni” delle quali viviamo. Il virus non ha soltanto attaccato il nostro sistema, ne approfitta. Semplice e micidiale. Naturalmente continueremo a indagare tutte le cause e ad analizzare tutti gli effetti. Ma ora sappiamo, con una evidenza che avevamo ancora sperimentato nella nostra carne, che quella indagine e quell’analisi non ci rendono invulnerabili. Non solo come individui, ma come sistema. E questo è per noi molto più difficile da assimilare, anche perché la sproporzione fra l’irrisoria semplicità del virus e la destabilizzazione del nostro sistema non risolve l’equazione del rapporto fra causa ed effetti. Evidentemente, qualcos’altro ha ceduto, nelle certezze ideologiche del nostro progetto evolutivo: se un piccolo virus può aprire una falla simile, nel nostro Titanic – che una semplice falla non avrebbe mai potuto affondare, si diceva – che cos’altro, che ora non vediamo, potrà farlo?». 

L’uomo del Terzo Millennio immerso nella “società dell’accumulo” si credeva invincibile nella sua “smart city”, fino a quando un piccolissimo virus, “un bastardino infettivo frutto di chissà quale anomalo incrocio, ha interrotto l’incantesimo”. Era quindi tutta un’illusione? 

«No, non era tutto un’illusione, era una rimozione. I progressi della scienza e della tecnologia sono reali e potenzialmente vantaggiosi per la qualità della vita umana. La conoscenza della natura e l’invenzione degli strumenti, dopo tutto, sono funzioni dell’anima umana, che ha una speciale facoltà di immaginare i modi di rendere abitabile il mondo e arricchire qualitativamente la vita. Si tratta di una dotazione che, per i credenti nella dottrina biblica della creazione, corrisponde alla singolarità della creatura umana e alla vocazione di Dio, che consegna all’uomo e alla donna la cura del mondo creato. Lo stile della “signoria” di Dio – amorevole e non dispotica, condivisa e non egoistica – è il tema di questo dono del mondo alla “signoria” dell’uomo e della donna. Se però ti convinci di essere diventato padrone assoluto della vita e della morte, legislatore inappellabile del bene e del male (i due alberi dell’Eden da custodire, ma non divorare), tutto può succedere. Rimuovere la propria vulnerabilità al delirio di onnipotenza (Adamo ed Eva) e la propria disposizione all’indifferenza per l’altro (Caino e Abele), invece di presidiarla coraggiosamente e fronteggiarla umilmente, conduce alla dolorosa scoperta dell’impotenza che rende schiavi, e della divisione che rende ostili. Il nostro sistema era già largamente pervaso dalla tendenza al godimento illimitato della vita propria e all’indifferenza ragionevole per la morte altrui. Il virus rivela il carattere illusorio di questo incantesimo che giustifica la selezione dei vincenti (presuntivamente immortali)». 

Eravamo dunque impreparati a sostenere culturalmente e praticamente l’indeclinabile appello della morte, che dimentichiamo faccia sempre parte della vita?

«Cominciavamo ad essere impreparati a condividere la nascita, la morte, gli affetti che segnano la nostra iniziazione alla vita, in una condizione di esistenza che deve consegnare al “mistero dell’amore di Dio” la redenzione e il compimento del desiderio di compimento per ogni singola nascita, per ogni singola morte, e per ciò che nella nostra vita rimane infinitamente superiore ai suoi limiti e alle nostre forze. Eravamo incamminati sul sentiero di una destabilizzante mescolanza di euforia e di depressione: ossessionati nevroticamente dai nostri diritti, ma infinitamente suscettibili nei confronti dei nostri doveri. Essere giovani e crescere non è un privilegio, più di quanto invecchiare ed essere mortali non è una vergogna. Le età della vita devono ritornare a convivere, le generazioni devono ritornare a concepirsi come reciprocamente responsabili. Non succede più da un bel po’, ormai. Un po’ del cinismo, persino involontario (peggio ancora!), che questa deriva contiene, le stesse condotte di fronte alla minaccia del virus l’hanno già mostrato»

Nel libro riprende la frase di una signora dimessa dall’ospedale guarita dal Covid-19: “Quando vi incontrerò di nuovo non ricorderò distintamente i vostri volti, ma riconoscerò infallibilmente i vostri occhi”. Forse dopo questa terribile esperienza abbiamo imparato a riconoscere la potenza di uno sguardo buono che è lo stesso sguardo di Dio, che vuole bene alla sua creatura e sa commuoversi davanti alle sue ferite? Come allenarci fin d’ora a guardarci tutti con occhi che comunichino umanità vulnerabile e prossimità disponibile, al di sopra delle mascherine? 

«Lo “sguardo buono” è un “bene sociale” che sta diventando molto scarso. Quando salgo in metropolitana, spesso sono colpito dal fatto che l’unico essere vivente che mi guarda con occhio buono e disponibile a un “contatto umano” è quello dei cagnolini accucciati sotto il sedile. In compenso, quando un ragazzo o una ragazza giovane si alzano per farmi sedere, sorridendo con gli occhi, mi commuovo. La città, con la sua promiscuità caotica il suo assembramento anonimo, è piena di insidie: ci rende guardinghi, sospettosi, indifferenti. Un artista di strada, che ci accomuna in un sorriso di ammirazione e di intenerimento per la sua performance al limite degli apparati del divertimento coatto, può fare per i nostri sguardi più di mille prediche. Il virus dirada le folle sgangherate, e incoraggia il rispetto reciproco. Incoraggiamo la sua conversione in resilienza. Le parrocchie non fanno musica classica, né frammenti di tragedia greca, sul sagrato. Come mai?». 

Nel libro la pandemia da coronavirus è l’occasione per ricordare la Misericordia e la compassione del Dio di Gesù, “misteriosa radice di ogni fiducia e speranza, anche quelle più esili”. Impareremo a nutrire ogni giorno sguardi buoni per chi ci sta accanto, per l’altro che incontriamo, per la comunità umana a cui apparteniamo? 

«Dobbiamo imparare. “Dove ci impaurisce il pericolo, là ci commuove la salvezza”, dice il Poeta. Non è certo per caso che le folle del vangelo siano conquistate dallo “sguardo” di Gesù, che frequenta in primo luogo gli avvilimenti, gli abbandoni, le emarginazioni di coloro che sono indotti a vergognarsi delle loro ferite. Quelli che perdono il sorriso e non ne ricevono più. Lo stupore di essere individuati come testimoni di una com-passione nella quale non speravano più è più contagioso del virus, come dice papa Francesco. E mette in imbarazzo la patetica durezza di cuore che sembra essere diventata endemica per molti, incapaci persino di rendersene conto. Gli apparati – anche quelli ecclesiastici – sono presidi vulnerabilissimi per le nostre rassegnazioni. La potenza della tenerezza di Dio nei nostri sguardi – e parole e opere – è una fede che smuove le montagne».