Il peso delle discriminazioni. Sul caso dell’avvocato Sedu: dare alle parole il giusto valore

La vicenda è nota, perché, poche ore dopo che uno dei protagonisti della vicenda, l’avvocato Hilarry Sedu, del foro di Napoli, ha sfogato la sua amarezza sui social networks, l’accaduto si è diffuso rapidamente, ripreso dalla maggior parte dei quotidiani locali e nazionali. La ripercorro in breve. Il 3 febbraio scorso, l’avvocato di origini nigeriane Hilarry Sedu, si è presentato presso  il tribunale per i minorenni di Napoli insieme a una sua assistita e la sua bambina per un procedimento inerente il rilascio di un permesso di soggiorno. Prima dell’udienza, una psicologa, giudice onoraria del tribunale di Napoli, si è avvicinata all’avvocato di colore, chiedendogli prima se fosse veramente avvocato poi, addirittura, se fosse laureato. Non contenta della risposta del legale napoletano, che è riuscito a trattenersi da una comprensibile reazione all’offesa, la psicologa ha affermato che si sarebbe rivolta al giudice togato per trovare conferme. L’avvocato Sedu, tornato a casa, ha sfogato sui social networks la sua rabbia e la sua indignazione per l’accaduto. La questione con la giudice onoraria, in realtà, pare essersi chiusa nel migliore nei modi, in quanto i giornali riportano le parole del dottor Sedu, che ha riferito di un incontro chiarificatore conclusosi con quel gesto del gomito, sostitutivo della stretta di mano che non possiamo scambiarci in questo periodo per motivi noti, che ha permesso un esito felice dell’incontro. “Tutto è bene ciò che finisce bene”, recita il proverbio, tuttavia, dal mio punto di vista,  c’è un “ma”. Non voglio complicare le cose né dare seguito a una questione che si è conclusa nel migliore dei modi, per carità, ma non posso tacere il senso di disgusto provato nell’ascolto dell’intervento telefonico della presidente del tribunale di Napoli, i giorni immediatamente successivi allo spiacevole episodio sopra descritto, che ai giornalisti ha risposto così, commentando la vicenda: “Non si è trattato di razzismo, ma solo di un fraintendimento”. Ora, anche a proposito dell’intervento di questo magistrato mi sorge spontaneo il ricorso a un proverbio: “Del bel tacer non fu mai scritto”. Di questa vicenda, l’aspetto più imbarazzante e vergognoso lo individuo proprio nel comportamento di questa giudice. Fraintendimento? Ma come? Se io vedo un avvocato di colore al suo posto per un’udienza, mi avvicino e gli chiedo se sia veramente avvocato, chiedo se sia laureato e mi metto a domandare in giro perché non credo a quanto afferma, solo perché ha la pelle nera, ho semplicemente frainteso? Ora, diciamolo con chiarezza: questa presidente non conosce vergogna! Sono d’accordo che non sia il caso di gridare al razzismo a ogni piè sospinto, ci mancherebbe. Concordo con l’avvocato Sedu nella sua classificazione, secondo la quale più che di razzismo si è trattato di idiozia. Anche secondo me si è trattato di un intervento maldestro, che invece di chiudersi seduta stante con le scuse della giudice onoraria, si è inutilmente protratta nel tempo. Tuttavia, definire questo un “fraintendimento” lo trovo assurdo. Mi sembra di riconoscere, in questo atteggiamento, quella faciloneria con la quale, oggi, si giustifica tutto, un po’come avviene dinanzi a un atto vandalico compiuto da adolescenti, quando si estrae dal cilindro quella frase che funge da passepartout: “Capita, sono ragazzi…”. A livello educativo, questo è un problema serio. L’educazione funziona quando si ha l’onestà di dare il nome corretto alle cose e alle situazioni. Un errore è un errore, un’offesa è un’offesa: ricorrere ad altre terminologie, con il fine di attenuare quanto accaduto nella sua rilevanza morale, è un atto sbagliato e profondamente diseducativo. Capita a tutti di sbagliare, come di utilizzare termini impropri che possono offendere: se ad ogni errore dovesse scattare una punizione o una radiazione dall’albo professionale, non so quanti si salverebbero; io di certo non avrei festeggiato il primo anniversario di ordinazione, ormai dieci anni fa. Si sbaglia, ma proprio perché si sbaglia, è necessario imparare a chiedere scusa. Non servono querele o altro, serve buon senso. Ho sbagliato? Chiedo scusa e mi impegno a non ripetere l’errore. Ecco perché definire l’episodio che ha visto coinvolto l’avvocato “fraintendimento” è pericoloso, perché cerca di attenuare una responsabilità oggettiva, quella della giudice onoraria, rendendo irrilevante ciò che non lo è. Peraltro, a me resta un forte dubbio: se lo sfogo del legale di origine nigeriana non si fosse diffuso in modo virale, destando scalpore e indignazione nell’opinione pubblica, sarebbero mai arrivate le scuse per l’offesa ricevuta?