Verso l’alt(r)o, la meditazione della settimana: prendersi cura per essere liberi

“Sono forse io il custode di mio fratello?”

Genesi 4, 9

Domanda spiazzante che, qualche giorno fa, ha citato una mia cara amica e che ho scoperto essere molto attuale, soprattutto in questi ultimi anni, poiché richiama al senso di responsabilità sia verso la società umana che verso la custodia del creato. Domanda che mi ha messo in difficoltà e che ha messo parecchio in discussione il mio modus operandi, il mio modo di essere nelle relazioni, nel lavoro, in famiglia, nei confronti dell’ambiente che mi circonda. Innanzitutto, mi sono chiesta cosa significhi “essere custode” e poi perché dovrei essere proprio io “custode di mio fratello”? Non siamo tutti abbastanza “grandi e vaccinati” per essere responsabili ciascuno delle proprie azioni? Sì, ma forse fino ad un certo punto.

Credo che essere custode significhi prendersi cura, preoccuparsi per l’altro, aiutare il proprio prossimo quando si intuisce che sta sbagliando, che sta mancando di rispetto a sé stesso e agli altri. Non perché si abbia la pretesa di essere gli eroi di turno, ma poiché siamo responsabili di ogni azione/non azione sia nei nostri confronti che nei confronti dei nostri fratelli. Certo, sarebbe molto più comodo pensare solo al proprio orticello, non dire niente per evitare malumori, incomprensioni, liti. Chiedere a qualcuno di cambiare atteggiamento, fare notare a qualcuno i suoi comportamenti poco rispettosi non è mai piacevole: né per chi lo dice né per chi riceve il richiamo. 

Ma credo che come cristiani ci venga chiesto proprio questo passo in più: laddove vediamo un’ingiustizia o una mancanza di rispetto siamo chiamati a riconoscere la nostra responsabilità e quindi l’importanza di metterci del nostro, consapevoli di poter portare solo “quei cinque pani e due pesci” che abbiamo la fortuna di possedere per essere davvero strumenti del Suo Amore. Non basta curare solo il proprio giardino. Ogni nostro comportamento va ad influire non solo sulla nostra vita ma anche su quella di chi ci sta accanto. Per esempio, se in una coppia sposata uno dei due non è mai a casa perché decide di passare più tempo al lavoro che in famiglia, come si può pretendere che la coppia sia felice? Che la loro relazione cresca? Che i figli si sentano amati? Così mi sono chiesta se nelle mie relazioni, nel mio lavoro, in famiglia, nell’ambiente che mi circonda io sia davvero responsabile, se davvero io sia “custode di mio fratello”… o se siano invece più le volte che faccio finta di niente, perché la paura di perderlo prevale sul fargli notare ciò che è bene per lui/lei.

Per quel poco che ho sperimentato posso dire che provare a fare qualcosa di scomodo, “lavare i piedi ai propri fratelli”, ci rende davvero uomini e donne liberi, liberi di amare.

Francesca Avogadro