Pandemia, esercizi di fraternità tra sconosciuti: farsi prossimo vuol dire prendersi cura

Il tempo di pandemia ha svelato a molte donne e molti uomini delle nostre comunità la realtà profonda del vivere un tempo di passaggio, come di esodo. In esso i gesti, le presenze, le scelte e le parole, i significati vengono riportati come all’origine, o scoprono altre declinazioni. Per la forza concreta, anche dura e sofferta dei bisogni, della vulnerabilità, delle paure, dell’incertezza. Delle solitudini.

Il mondo della vita di tanti è stato colto e tenuto in mano da altri: familiari, vicini ma spesso persone lontane, sconosciute. In insolite fraternità della cura e dell’attenzione. “Tenere in mano” la vita fragilissima e il gemito di altri, e sentire la fragilità delle proprie mani, che si offrivano, non si sottraevano è stata l’occasione e la scelta per molti, sul cammino.

Farsi vicini, incontrare, è stato ed è incontrare nella cura la propria vulnerabilità, ma, insieme, la profondità del desiderio che ci abita, che si fa promessa: non saremo lasciati soli, abbandonati. Siamo figlie e figli che sanno farsi fratelli e sorelle.
I corpi, le biografie, le sofferenze così esposte ed affidate in questi mesi hanno mosso molti uomini e donne a “piegare” ed offrire i loro saperi, i tempi, le risorse, gli esercizi di ruolo, le loro attenzioni per farsi lì presso. Nella cura. Quasi un apprendimento, ancora, della condizione umana, che riappare ogni volta che nella vita, nella vita comune, riappare l’evidenza della nostra costitutiva vulnerabilità.

Questo, appunto, chiama alla cura, che a volte si dà come fraternità tra sconosciuti, che può prendere la forma di tratti di cammino condiviso. Sempre che si sappiano interrompere le continuità cieche delle funzionalità, dei miti e delle ragioni che producono le estraneità delle prestazioni, le esclusioni, le disequità e le indifferenze ciniche.

Chinarsi presso l’altro apre il tempo, segna inizi, serba la Promessa. Chiama l’altro a rialzarsi in dignità e speranza. È oltre lo scambio, il mercato; la rivendicazione di diritti, la prestazione. La cura è vivere la dimensione di dono nel tempo, nella parola, nel lavoro fatto bene, negli sguardi attenti, nella domanda e nell’ascolto, nel partecipare alla vita comune. Curare è mettere la vita in comune, nella ferialità concreta, sapendo di essere, anzitutto, donatari ed anche capaci di prossimità.

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C’è anche una generatività particolare nella cura, che nasce nel farsi prossimi: oltre la reciprocità, la logica del ricambio e l’attesa di restituzioni si alimenta un circuito più ampio e indiretto, più diffuso di veglia attenta ad altri, ai più fragili. È come mettere una “caparra” sul futuro di altri, perché siano liberati dal peso di esclusioni e ferite, e possano di nuovo andare all’incontro. Nella cura, ricevuta ed offerta, tratteniamo in noi la grammatica fondamentale della condizione umana, quella ripresa nel piccolo e prezioso libro di Michel de Certau: Mai senza l’altro (1993).

Non sono quelli che si trovano nell’abbondanza e nella possibilità ad essere capaci di una prossimità. No: sono piuttosto i fragili, i normalmente fragili, che sanno riconoscere ed essere attenti alla cura perché riconoscenti. Loro sanno che “l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è un tempo che passa, ma tempo di incontro” (Fratelli tutti, 66). Anche loro sono donne e uomini che sperano di essere riconosciuti, si sentono non innocenti ma sanno farsi carico del dolore e dello stato di bisogno, non passano oltre.

Mettere in comune il tempo e la vita

Farsi prossimi in tempo di pandemia ha preso anzitutto la forma della messa in comune del tempo e della vita, in presenze persona a persona, famiglia a famiglia, pur nelle cautele dei vincoli e delle distanze di sicurezza. La prossimità è destinare tempo e incontro a costruire una membrana che generi vita, rifioritura, senso. È esercizio adulto, la cura, ma ne sono capaci anche tanti piccoli. Facendo questo non si sente di donare ciò che si fa, qualcosa su cui si ha possesso e merito; piuttosto qualcosa che, a propria volta, si è accolto e ricevuto. Si cura e si favorisce la rigenerazione di fedeltà al presente e possibilità di nuovo inizio.

E se prossimità e cura giungessero sul finire, la mano avrebbe tenuto la promessa, come una carezza in fine.
Certo, nulla ci garantisce che domani sperdimento, rescissione delle radici, cattive nostalgie, ricerca di nuovi idoli legittimino di nuovo l’esercizio della forza tra le donne e gli uomini. Ma ricordiamo le parole di Simone Weil: «Sembra di trovarsi in un’impasse da cui l’umanità possa uscire solo con un miracolo. Ma la vita umana è fatta di miracoli».

Sono molte le persone, le famiglie e i gruppi sociali, che non vivono la convivenza come riparo, come sostegno e accoglienza, come protezione in caso di fragilità e come compagnia in caso di solitudine. La convivenza è vissuta come un luogo di esposizione delle proprie vulnerabilità, difficile da sostenere, a volte luogo carico di minaccia, a volte luogo del giudizio e dell’esclusione, della freddezza e della distanza.

Per far fronte al sottile e intimorito insinuarsi della distanza, serve lucidità, cura del sentire l’altro, attenzione a chi stiamo diventando. Allora non possiamo che accettare di chinarci di nuovo, con intelligenza vigile, con cura sulla vita e sui legami, anche sulle forme della vita comune che resiste e nasce. Sulla vita che a volte muore.

Tante e tanti si chinano, a volte intervenendo e spesso impotenti, per tener viva una danza di sguardi, di tocchi e carezze. Tenerci negli occhi: uno a uno, una a una, come a salvare il nome proprio di ognuno.
Il dono, la gratuità sono dimensioni proprie d’ogni gesto nostro: nella professione, sul lavoro, a casa, negli incontri, nel gioco… Lì o ci offriamo o ci serbiamo solo per noi stessi, per la nostra recita. La prossimità e la cura appartengono agli umili, ai debitori, ai provati; sono dimensioni di donne e uomini non perfetti, solo riconoscenti.

Nella verità del “fondo” del nostro tempo allora c’è da “sminare” l’atteggiamento verso il vivere, scosso dalle nostre paure e dalle nostre freddezze. Ma c’è anche la “delicatezza delle carezze” a cui abbiamo fatto cenno. Da sminare non c’è solo la potenzialità di aggressività e distanziamento a cui la paura può portarci, ma anche il rischio di auto-distruttività e di rassegnazione, quasi una tentazione di lasciare la presa. Perché la vita – quando non manifesta il suo aspetto di promessa, bellezza, giustizia – fatica a essere desiderata. Bisogna lavorare su una sorta di posizionamento interiore tutti i giorni, aiutandoci gli uni gli altri a tornare a generare.

Riscoprire i legami di fiducia

Questo chiede a tutti un intenso lavoro per riscoprire la fiducia come tolleranza dell’esposizione reciproca. La fiducia è un rischio. Abbiamo costruito per decenni un legame basato su mercati e assicurazioni. Ora arriva un virus che ci fa sentire esposti gli uni agli altri, però non possiamo curarci se non avvicinandoci e quindi rischiando l’esposizione. Esposizione e rischio si danno insieme.

Certo, in certe prossimità c’è anche chi “ti tocca e non ti sente”, e a te che già provavi di non appartenerti più, pare di sentire di non essere più di nessuno. Ma c’è anche la cura, c’è stata per molti in tempo di pandemia, da parte di sconosciuti fatti prossimi. Chi ha toccato la soglia, e vissuto il “patto” tra amore e morte, vive una particolare responsabilità a rendere testimonianza. Quando ci è capitato di pensare dai margini della vita, i nostri e quelli che incontriamo o presso i quali ci poniamo, viviamo come uno scioglimento, un legame che è slegame. Il tempo non si dipana più come progetto, si sorprende come luogo di una promessa, di una fedele fraternità.

Ci sono uomini e ci sono donne che osservano con meraviglia, che si fanno prossimi e che curano le singole differenze, le fragilità e le ferite di ogni vita che incontrano. Sono appassionati da una specie di antropologia delle vulnerabilità e delle differenze: cercano, colgono, proteggono, valorizzano quelle differenze che continuamente irrompono nella norma, rendendola instabile, evolutiva. Sono attenti a quelle fragilità, a quelle particolarità, che spesso fioriscono nelle crepe, nei limiti, nei margini, nelle distorsioni delle storie, dei corpi, delle comunità familiari, delle relazioni sociali. Nelle quali si vanno soffrendo e riaprendo forme di vita, ricerche, resistenze, adattamenti. Ed anche, appunto, fioriture nuove e improvvise.

La vulnerabilità riporta all’origine

Sì, proprio la vulnerabilità, che spesso è il tratto manifesto della differenza, della prova, dell’ingiustizia per questi uomini e per queste donne, va raccolta perché riporta all’origine. Perché richiama alla relazione che rende possibile di nuovo la vita e il suo narrarsi ancora, ancora prendendo forma. Quella relazione che viene rigenerata dalla vulnerabilità come possibilità e come obbligazione.

All’origine la relazione, all’origine vite vulnerabili offerte e affidate: danze di forme e di narrazioni di convivenza sorprendenti. Ci sono donne e uomini che nella loro vita incontrano il limite e la fatica di molti, il declinare e il sottrarsi: lo accolgono e lo accettano. Non provano a disporre o a controllare, non cercano di risanare o di salvare: provano piuttosto presenze, compagnie, un sentire attento, un profondo riconoscimento, un rispetto accorato.

Depongono uno sguardo che giudica o soltanto diagnostica, indeboliscono un pensiero della riparazione e del supporto, interrogano l’atteggiamento della sola rivendicazione di diritti (per le “minoranze”, le “minorità”, le “vittime”). Non sopportano la “mistica della fragilità”, che produce troppo spesso esclusioni e subalternità, volontariati soffocanti, meritori o un po’ sacrificali. Cercano ed amano le narrazioni dei percorsi di resistenza e di resilienza, i segni singolari, le pratiche inattese di emancipazioni divergenti e creative, le relazioni sbilanciate eppure reciproche, le prossimità dove si apprende dello zoppicare il ritmo unico quasi danzando.

Questi uomini e queste donne di parola e di gesto, di iniziativa pubblica e di testimonianza personale, hanno cercato e cercano l’inizio continuo della vita nelle pieghe anche un poco oscure, certo sofferte, delle vite fragili. Lì indicano la preziosità di cercare l’incontro, l’inizio: nel suo resistere, nel suo trovare forme e sussulti particolari, nel suo chiamare vicinanze e riconoscenze di corpi, di gesti, di desideri.

Pensando ai figli dell’uomo scriveva Paul Ricoeur che “la vita è più della spontaneità, della motivazione e del potere, è una certa necessità d’esistere”; lo stesso entrare nell’umano ha un carattere flottant, incerto, titubante, sospeso e fluttuante. Rivela una passività un affidamento, una esposizione irriducibile dell’essere in vita.

Questa passività dei figli è come una recettività, ma è anche come un’offerta alla e nella cura. Trovarsi in vita, appunto: grazie, con e tra altri. Ci sono uomini e donne che si ritrovano lì, presenti, vicini, fatti prossimi, quando la vita è flottant, quando sussulta e fatica, e prova ad essere una risorgiva. E non temono di vedere riflessa la loro piccolezza e la loro pochezza, la loro non innocenza le loro paure e loro impotenze. Le incontrano e incontrano il mistero dell’altro che viene loro incontro dal ciglio della strada. È un poco il sentiero che scelgono per farsi incontrare dalla verità, per farne esperienza.

Ci sono uomini, e certo donne, che questo hanno scoperto, che questo ci indicano e ci consegnano. Uomini e donne attenti alle crepe della vita: lì nidifica la colomba del Cantico. Farsi prossimi non è solo dare un po’ di tempo. È piuttosto una “piegatura”, un “chinarsi” del proprio tempo presso il momento e la condizione dell’altro. Simone Weil direbbe attenzione: ai suoi gemiti, alla sua attesa. È tempo dato a lui: perché l’altro, accolto, possa ancora sentirne il battito, e la possibilità. La cura è cura del tempo con e per l’altro. Come quando cresciamo le figlie e i figli. E la vita resta, o torna, promettente; la vita è tempo d’incontro.

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