Un anno di pandemia: ma ci manca ancora la giusta distanza

È passato un anno dall’inizio della pandemia. Le immagini delle ambulanze in attesa fuori dall’ospedale, delle bare allineate nelle chiese, dei carri militari che portavano i corpi fuori dalla città ci investono di un forte carico emotivo, è difficile trattenere le lacrime.

Eppure il rischio della retorica è in agguato e poi ci sono i dibattiti sulle responsabilità, le polemiche sul vaccino, i giudizi sommari sui social, gli esperti che dicono tutto e il suo contrario. Non bastano le celebrazioni, gli omaggi musicali e i ricordi a mettere tutti d’accordo. Abbiamo commemorato le vittime, e questo ha dato forse un’ombra di pace a chi deve fare i conti con tanta solitudine, dolore e rimpianto. Tuttavia quanto stridevano le storie di perdita rievocate negli ultimi giorni con immagini dei tifosi fuori dallo stadio di Bergamo prima della partita tra Atalanta e Real Madrid. La gente cede facilmente al desiderio di leggerezza: e ci mancherebbe, dopo un anno di privazioni. Allo stesso tempo, però, ciò che sta accadendo – le ribellioni alle chiusure, la voglia di fare festa comunque – mostra che non abbiamo ancora la distanza necessaria per poter valutare correttamente l’accaduto, collocarlo nella storia, misurare le conseguenze. Non abbiamo assorbito per ora alcuna lezione. Navighiamo a vista, cercando di prenderci gli spazi che possiamo, ogni volta che si presenta un’occasione (come la partita).

Non sappiamo ancora quanti cerchi ha prodotto la pandemia, quanti ne produrrà ancora. Di sicuro, però, non ce la siamo lasciata alle spalle. Stiamo ancora annaspando per risolvere i problemi che via via ci propone a livello politico, economico, delle grandi dinamiche sociali ma anche a livello personale, intimo. 

Solo l’altro giorno camminando per la città ci ha colpito l’immagine di un uomo anziano senza mascherina che borbottava tra sé teorie negazioniste e complottiste secondo le quali il virus sarebbe un complotto internazionale, che ci stanno infarcendo la testa di falsità, che le norme restrittive contro l’epidemia finiranno per ucciderci, affamarci oppure farci impazzire. Abbiamo guardato con attenzione quest’uomo inquieto e tormentato. Un tempo, forse, avremmo subito pensato che si trattasse di un soggetto fragile, con problemi di alienazione e di solitudine. Ora ci siamo ritrovati a chiederci se non fosse soltanto qualcuno che attraversava un momento di sconforto dovuto alla crisi in corso, dato che posizioni simili vengono condivise da più persone, perfino in una città come la nostra, che ha già offerto alla pandemia un grande tributo di fatica e dolore. Per questo, per il momento ci sembra che la strada più interessante da percorrere sia quella indicata da iniziative come quella della Caritas, “Ricominciamo insieme”, a cui dedichiamo il dossier di questa settimana: guardarci intorno con attenzione, essere pronti a rispondere alle richieste d’aiuto, provare a costruire, dove è possibile, nuovi legami di vicinanza. Come se dovessimo rimettere le fondamenta di una nuova umanità post-pandemica. Sapendo che a farci sentire più vicini può essere proprio la consapevolezza di attraversare insieme il deserto.