Covid-19 nelle serie tv: in “Grey’s Anatomy” e “This is us” nessuno si salva da solo

La pandemia ha fatto irruzione nelle serie tv più seguite, a partire dai medical drama come il celebre “Grey’s Anatomy”, in cui è diventata tema dominante della diciassettesima stagione. L’effetto è molto forte dal punto di vista emotivo: le immagini delle terapie intensive piene e le storie dei personaggi riportano gli spettatori nel pieno della “prima ondata”, con tutta la sua carica drammatica. D’altra parte, non è ancora passato abbastanza tempo per poter mettere una distanza tra i fatti e la loro rappresentazione: lo sguardo degli sceneggiatori, quindi, finisce per offrire alcune chiavi di lettura degli effetti più dirompenti della pandemia. 

“Grey’s Anatomy” offre uno sguardo “interno” al sistema sanitario: mostra la fatica di medici e infermieri, la loro condizione di “supereroi”, ma anche il grave senso di impotenza di fronte a una patologia che non conoscono e non sono ancora in grado di debellare. “Muoiono tutti” dice con una punta di disperazione il neurochirurgo Tom Koracick tenendo la mano di Meredith Grey, la protagonista: entrambi sono stati contagiati. Sono due medici eccellenti, ma impotenti di fronte alla situazione che li vede stavolta, inaspettatamente, nella massima condizione di fragilità.

All’opposto una serie come “This is us”, dramma familiare giunto alla quinta stagione, vincitrice di moltissimi premi fra i quali un Golden Globe e due Emmy Awards, racconta la pandemia così come la sta vivendo la gente comune: la necessità di indossare mascherine, di mantenere le distanze, la quarantena trascorsa chiusi in casa, tutti elementi che possono produrre, come accade nelle vite dei personaggi, delle “paralisi emotive”, creando lunghe pause di tempo sospeso nelle relazioni, oppure, all’opposto, innescare dei processi di accelerazione, perché costringono a ragionare su cosa sia davvero importante, a fare scelte forti in campo personale e professionale.
Intorno al tema del coronavirus si è sviluppata una “infodemia”, neologismo che secondo l’enciclopedia Treccani definisce un’“informazione ridondante”, che finisce col creare disagio e fa da moltiplicatore alle paure più profonde. Anche nel settore dell’entertainment incomincia a manifestarsi questa ridondanza: forse tra vent’anni l’analisi dei racconti di fiction fornirà elementi utili a sociologi, psicologi e comunicatori per definire gli elementi principali della narrazione della pandemia (quando ormai ce la saremo lasciata alle spalle). Per ora questa rappresentazione offre da un lato un senso di “naturalezza” e di continuità dell’ambientazione rispetto alla nostra realtà quotidiana, facilitando un meccanismo di identificazione, come se le fiction potessero farci da specchio. Dall’altra, forse, può mettere in moto un processo catartico, simile a quello innescato dalla tragedia greca: rivivere i traumi vissuti per liberarsene, almeno un po’, per creare – in un’atmosfera che resta comunque di evasione, di intrattenimento “leggero” – quella distanza minima che ancora non ci ha dato il succedersi costante di ondate e picchi. 

Come una singolare lente d’ingrandimento perfino queste serie – seppure nate in un luogo “lontano”, negli Stati Uniti, e in un contesto così diverso dal nostro – puntano i riflettori su un aspetto che sentiamo molto “nostro” in altri momenti forse avremmo definito scontato e retorico, mentre ora ne abbiamo sperimentato la potenza: come dice Papa Francesco “nessuno si salva da solo”, la capacità di ascoltare, di aprire gli occhi, di osservare da prospettive diverse, di indossare ogni tanto anche i panni degli “altri” in un momento come questo può fare la differenza.