Una comunità che mantenga tracce di fraternità. Verso nuovi inizi

www.unsplash.com

Cosa resta?


E giunge la pandemia, silenziosa, nei corpi e nei giorni. E li lascia nudi, scoperti. E apre crepacci e fenditure di domande e di incertezza. Apre varchi esistenziali strettissimi, interrompe pratiche e quotidianità consolidate, rodate, potenti. Ora non più: sono sospese, rotte, alcune per sempre.
Resta aperta (scandalosa?) la domanda del senso, quella su ciò che vale, su ciò che resta: di quanto abbiamo realizzato, coltivato nel tempo, di ciò che siamo andati cercando e abbiamo difeso, di quella che è stata la nostra speranza. È la domanda del senso e del segno: di un fare, di un applicarci, di un operare e progettare; anche del realizzare insieme ad altri. Cosa vale, cosa resta dei sogni e delle aspirazioni nostre? E delle nostre memorie e delle esperienze?
È un tempo, quello aperto dalla pandemia, nel quale molte donne e molti uomini sono condotti, e costretti, a chiedersi cosa può essere consegnato per nuovi inizi, per nuovi cammini. E forse, prima ancora, a chiedersi cosa può resistere, cosa può aiutare per stare nei giorni della prova. Cosa ci resta per provare a stare prossimi, accanto, gli uni agli altri, le une alle altre? Cosa vale la pena per provare a tenere gli occhi aperti, in piedi controvento? Che è la chiamata che certi tempi ci fanno, come indicava Simone Weil nella tormenta della guerra e dell’odio.
Cosa resta quando devi stare nei giorni, stare accanto, lasciare? Il dove vuoi andare non te lo dice. Devi, piuttosto, cercare da dove vieni. Devi cercare ciò che ti ha accolto, coltivato, costituito; ciò che ti è stato consegnato: cosa valeva? Cosa era l’essenziale nelle storie e nelle persone cui devi il meglio di ciò che sei? Quali i sogni che ti hanno “preso”, e le consegne? Quali le attese di chi ti ha chiamato, ha sperato in te, ti si affida?
Dove andare è difficile definirlo in tempi di esodo, come questo tempo di pandemia: sia nei progetti personali, familiari che in quelli comunitari, di convivenza, nei progetti politici. In questi spesso ci si rifugia nel corto circuito delle “ripartenze”, o nelle illusioni del “ripristinare”. Dove andare sarà, anzitutto, definito via via dal ristabilire legami ed equilibri, dall’“organizzare” il sentire e la forma del camminare insieme. In oasi di fraternità, per dirla con Edgar Morin. Dove andare chiede un nuovo e forte sì alla vita, una alimentazione dell’origine, alle sorgenti.
Da dove viene il nostro fare, il nostro incontrare, il nostro pensare, anche il nostro sentire? Da dove? Da chi? Da quale Parola?
Da dove viene quel che siamo e facciamo? Dove origina? Dove la fonte? Questo serve chiederci oggi, questo va indagato, questo, insieme, dobbiamo aiutarci a trovare. Trovarne riflesso, trovarci riflessi nell’origine.
Allora, incompiuti e non innocenti, potremo ritrovarci comunque attesi e capaci di rigenerare legami fraterni, e inizi di cammini impegnativi. Ritrovarci “unica umanità, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli”. (Fratelli tutti, n 8)

Un nuovo cammino


Quali declinazioni potrà prendere un incontro in un mondo che si presenta ricco di paure e conflitti, di lacerazioni, con prospettive e disegni incerti e frantumati? In un mondo da ritrovare e coltivare, da riconoscere e salvare nella sua possibilità e integrità; in un mondo da desiderare, per consegnarlo agli appena nati? Riusciremo ad assumere paure e conflitti salvando il desiderio e l’attenzione sull’a venire?
In questo tempo si è riaperta la questione dell’uomo, e lo si vede nella forza che manifestano le forme in cui si esprime l’attrazione del nulla: il dissolvimento e la dispersione di tante vite dalle relazioni estenuate; la disposizione alla guerra ed alla violenza; il cinismo indifferente di tanta spesa di intelligenza.
“Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Nessuno si salva da solo!” Sono, ancora, le parole di Papa Francesco, che sta solo con il Dio crocifisso sulla piazza S. Pietro vuota, e con l’umanità sulle spalle: sembra Giacobbe dopo la lotta con l’Angelo, sciancato dalla ferita al fianco, all’uscita dalla notte. Ma sentendo ancora benedizione su di sé e sull’umanità.
Dopo la notte, in esodo, non “torna” il giorno, si apre un’alba nuova, un nuovo giorno. Ma a condizione che la notte sia stata di lotta, di sperdimento anche, e insieme un tempo di verità, di conoscenza dei propri moventi profondi (distruttivi e generativi), e quindi di “respiro” nuovo della coscienza.
Cosa serbare come semente per continuare il cammino? quali aratri serviranno? dove sarà l’acqua? Ci saranno luce e calore a chiamar fuori germogli? Domande nell’esodo, per il cammino oltre. Per alimentare la promessa. La categoria del “dopo” … chissà se è adeguata, se aiuta?
Sarà piuttosto un riprendere un cammino ora così segnato da impoverimenti e da più acute diseguaglianze, da un più diffuso morso dell’incertezza … Peserà anche il ricordo della paura provata. Ci saranno tante assenze: di tantissimi fragili e vecchi, di tante memorie, e storie e comunità.
La paura che si fa rabbia e risentimento può farsi velenosa, cercare colpevoli contro cui scagliarsi. I social ne ospitano molta, e continuano a alimentare confronti vittimistici e rabbiosi, e chiedere una giustizia sommaria e vendicativa, ad affermare il “ per sé”, “per i nostri”. È un brutto conflitto distruttivo.
Ma una certa paura può pure coltivare il bisogno di vita, e insieme la sua bellezza, portare a criteri di cautele e di salvaguardia, a condividere rischi, sofferenze, prossimità.

Dobbiamo decidere quali “coaguli” della vita sociale e politica coltivare nell’attraversamento verso il domani. Coaguli verso la rabbia reattiva, la difesa di sé (a volte dei privilegi e del proprio “merito”), coaguli attorno al senso di minaccia, al rancore sordo? O piuttosto, coaguli attorno a un’amicalità non di illusi ma di responsabili, di lucidi orientati al futuro, di disincantati ma fiduciosi: quelli che han visto le fraternità tra sconosciuti di questi mesi, che sanno del valore della gratuità di saperi e lavori fatti bene?
Confidiamo come comunità in questi e costruiamo “coaguli” concreti di speranza vera, non inacidita. Ci sono anche le speranze “inacidite”: sono quelle di chi spera di tornare a un prima e ai suoi vantaggi, alle sue sicurezze (dimenticando le tante vite senza riparo), speranze di alcuni senza spazio per altri. Speranze di distanze, di ritorni a freddezze e separazioni. Speranze inacidite, speranze dell’indietro.
“C’è bisogno di una comunità che ci sostenga, che ci aiuti e nella quale ci aiutiamo a vicenda a guardare avanti. Com’è importante sognare insieme. […] Da soli si rischia di avere dei miraggi per cui vedi quello che non c’è; i sogni si costruiscono insieme”.
Chissà se toccare l’inutile, l’incerto, l’inefficace ci preparerà a tornare a sentire più in profondità il gratuito. La sua energia delicata e decisiva. Walter Benjamin in Esperienza e povertà (il saggio è dell’estate 1933) scrive pagine utili per un tempo in cui riuscire davvero a cominciare da capo, a cominciare dal nuovo, a costruire dal poco. Mentre i saperi e i poteri di prima o toccano il limite o si rivelano futili, se non ingannevoli o, addirittura, menzogneri. Ci indica che occorrerà, in qualche modo, “liberarsi dalle esperienze”, quelle ricche, che parevano solidi edifici che tutto spiegavano e garantivano – anche le ingiustizie, i cinismi e le disponibilità – per provare a creare una vita comune da una certa povertà, «quella esteriore e alla fine anche interiore, con tanta purezza e nitore che ne esca fuori qualcosa di decente».
Lì potremo seminare di nuovo nel bisogno di credere, che in questo tempo è così provato, viene così sfibrato e si tende come la corda di un arco sul punto di rottura. E legando il bisogno di credere al desiderio e al compito di sapere, di conoscere, di essere responsabili.
Ci vorranno adulti e giovani adulti capaci di aver cura del futuro di altri, capaci di tenute intergenerazionali, di promesse e fedeltà, di custodia e coltivazione. Capaci di un forte senso di fraternità e sororità, oltre che di senso dell’equità e della libertà responsabile.
Capaci di paternità e maternità, di genitorialità. Con grande senso dell’obbligazione. Esigenti con se stessi, poi gli uni gli altri. Da “ricostruire”, rigenerare e reimmaginare, riprendendo il cammino, sono diritti e legami, partecipazione alle vite gli uni degli altri, produzione di beni e promozione e distribuzione del bene lavoro. E poi prossimità e servizi alle persone e alle famiglie, forme e luoghi dell’educazione, del fare cultura e del comunicare, orientamenti della ricerca e della sperimentazione scientifica e tecnologica.
La convivenza nostra, la tenuta e la coesione della nostra comunità nazionale ed europea, lo sfibramento dei legami, lo mostrava già evidente prima dell’epidemia e della pandemia. Ora lo mostra ancor di più, con l’entrata in dissolvenza dei profili di futuro, sul piano economico ed occupazionale, su quello delle relazioni tra gruppi e soggetti sociali, su quello di un ethos civile e di una cultura dei diritti e delle responsabilità che fatica a fronteggiare risentimenti, rancori, spinte all’autoassicurazione, alla separazione e all’esclusione. Ma l’Europa nei corpi, nelle storie, nelle pratiche e nelle attese delle sue donne e dei suoi uomini vive e sente che bellezza e bontà del vivere, giustizia e generosità, fiducia, speranza e fraternità sono dimensioni, esperienze dell’umano che chiedono riseminazioni quotidiane, ritrovamento di senso e di sorgenti, fraternità di figli.
Inizia a sentire il tempo duro d’attraversamento, come tempo d’attesa e di nuova prova. Tempo opportuno, tempo d’esodo e d’inizio. Scrive Francesco nella sua enciclica “Coi suoi gesti il buon samaritano ha mostrato che l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro”. (Fratelli tutti, n 66) E poi: “questa parabola è una icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite (…) si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune.” (Fratelli tutti, n 67)
Pensiamo a come si svela in questo attraversamento un bisogno di senso e di buona spesa dei poteri, dei saperi, delle risorse e un bisogno di confidare, un bisogno di credere in tanti uomini e donne d’ Europa, provati e un po’ storditi.
È una sfida anche per la fede. Si è ridotta la fede a cultura, ad appartenenza, a difesa identitaria, a morale. Questo tempo di durezza e morte in un esodo che era già avviato, ci riporta alla nuda fede, alla sua dimensione anche drammatica, e di affidamento gratuito, da poveri. Quello cui ci richiama spesso questo anziano Papa “preso quasi alla fine del mondo”, preso e donato sulla fine di un mondo, sul limitare tra un tempo e un mondo ed un altro. Smascherata la nostra vulnerabilità e scoperte le false e superflue sicurezze nella tempesta, emerge l’appello alla fede, alla fede nuda in “un tempo di scelta”. Francesco ci esorta, mentre invoca Dio, a essere “tutti una cosa sola” (Gv, 17, 21).
Occorrerà mostrare che si può vivere insieme, si può cercare felicità, si può ancora generare, fare cose, scrivere, lavorare, confrontarci. Che sì, si può osare, si può offrire tutto questo, e lo si può ricevere, che si può ospitare “la morte nella vita”, come osa indicarci Julia Kristeva. È una lezione grande: come approssimarci? E anche come non temere di farci vicini nel contagio… alla morte dell’altro? Chiuderci o aprirci? Sospettare, allontanarci, o farci vicini e guardarci? Tra fragili e vulnerabili. Per ritessere da lì vite e storie, e comunità.
La “debolezza del credere”, come direbbe Michel de Certeau può incontrare la forza e la tormenta dell’oggi. Può portare a quelle “pratiche dell’invocazione” che a volte sono ciò che resta, e ciò che vale. Invocazione di un senso di cui non siamo l’origine, e di cui non possiamo produrre un compimento. Attesa, affidamento, solo gesto offerto, solo invocazione.

La paura e la speranza


Siamo ad un passaggio esigente, il tempo che ci è donato e che ci chiama è tempo di una inedita radicalità. Non quella radicalità dura e semplificante, esemplare, fondamentalista e autocentrata. Che disprezza e giudica gli altri, che impone un pensare e un fare che distingue, separa, oppone. C’è una radicalità che non separa, ed è quella di donne e uomini, di comunità che continuano a cercare, a chiedersi fino in fondo il perché, l’origine la destinazione, la vita nuova, la fraternità. Se lo chiedono sentendo il bisogno dell’incontro, con l’altro, con la verità.
Questa ricerca dell’origine e della radice è importante per fondare nuovi percorsi, nuovi modi di usare, distribuire, ospitare: le case, le cose, il denaro, il modo di incontrarci. Con una tessitura di interiorità, di forme affettive e psicologiche, di spazi culturali nuovi, di nuove strutture del diritto, forme istituzionali, alleanze e interdipendenze.
Radicalità, in questo senso, è anche spingere le radici del vivere in profondità, alla ricerca di sorgenti di energia, sapendo tuttavia che le radici nello spingersi in profondità si fanno anche un po’ male (a volte trovano, a volte non trovano, reggono e faticano) e soprattutto stanno nascoste. Nessuno le vede ma le radici, nel profondo, s’avvicinano, s’incontrano: questo annotava anni fa Paul Ricoeur. Si cerca, si trova la propria identità spingendo le proprie radici, si incrociano le altre radici, e le loro tensioni, si colgono sorgenti: di questo c’è bisogno perché da lì si trovi altra linfa, con rilanci fecondi. In una terra comune, in un territorio che esplora le profondità della vita comune.
“In questo mondo che corre senza una rotta comune, si respira un’atmosfera in cui ‘la distanza fra l’ossessione per il proprio benessere e la felicità dell’umanità condivisa sembra allargarsi: sino a far pensare che fra il singolo e la comunità umana sia in corso un vero e proprio scisma. […] Perché una cosa è sentirsi costretti a vivere insieme, altra cosa è apprezzare la ricchezza e la bellezza dei semi di vita comune che devono essere cercati e coltivati insieme”. (Fratelli tutti, n 31)
È una capacità di respiro e di orizzonte che va coltivata nelle persone, nelle interiorità, e pure nella nostra convivenza, per aprire ed “osare” oltre quello che si può controllare e governare con scelte da compiere qui ed ora. Un respiro di generazione in generazione: memoria del futuro, ma anche nuova capacità di rapporto con le memorie, i cammini trascurati, le consegne ricevute.
Il respiro è quello che un po’ si è perso nella forma di vita che abbiamo disegnato nella ed alla nostra convivenza, e quello che va riconquistato come “sogno interrotto” , come risorgiva preziosa per la traversata. Una persona che ha dedicato la sua vita e la sua competenza in modo generoso nel campo della cooperazione e della strutturazione di servizi Caritas recentemente, intervenendo ad un incontro a distanza per operatori pastorali sosteneva: “C’è bisogno che, nelle nostre comunità, si apra una stagione che favorisca rigemmazioni”. La presenza sociali, le opere ed i servizi di tante chiese locali, dell’associazionismo, del terzo settore a volte si vivono come l’albero ,o si concentrano sui loro frutti maturi. Ora occorre essere capaci di favorire rigemmazioni, di morire e rinascere, e fare spazio ad altro. Fare spazio e consegnare racconti, preparare terreni e consegnare sogni: con parole che vengano de-costruite e ri-composte in nuovi esercizi di responsabilità e cura.
È il ”pensare insieme” e l’insieme narrare il luogo della rigemmazione. Ma quando si è pensato insieme, quando le cose sono venute in chiarezza, le alternative sono un po’ più evidenti e le attenzioni per ciò che è rimasto nell’ombra sono emerse, ci vuole una parte che sia capace, man mano che vengono fissate attenzioni e criteri, di ricordarli, raccordarli di continuo, serbarli per tutti. Con una certa franchezza e forza, in modo esigente, sapendo che in tal modo si assume un ruolo scomodo.
Richiamare tutti alla fedeltà alla parola che abbiamo colto e costruito insieme e in cui ci riconosciamo non è comodo, si rischia molto nel farlo perché può darsi che quelli stessi che hanno contribuito a immaginare e fare qualcosa in termini di bene comune, riassorbiti dalle loro ragioni o dai loro interessi parziali, tendano a evitare fedeltà e impegno.
Una comunità cristiana non dovrà temere di esprimere la sua attesa, la sua differenza, nella parola e nella pratica della “eccedenza”, di prossimità, presenze e testimonianze. Una certa scomodità sarà da assumere, pur se questo è controtendenza rispetto alla ricerca di consenso, di adesione facile, di accettabilità. Scomodità del chiedere fedeltà e consapevolezza all’incontro che si è dato tra noi e dal quale non si deve tornare indietro.
Se si è costruita consapevolezza in un territorio, se si è operato per far sì che le persone si incontrino mettendosi a disposizione le une delle altre, condividendo le risorse e gli spazi, oltre che il respiro dei loro spazi interiori, se si sta costruendo qualcosa che ha il sapore della fraternità e della giustizia, qualcosa di nuovo, chi ha animato il momento in cui ci si è mossi in questa direzione, deve continuare a presidiare, insieme e più degli altri, che questa direzione venga mantenuta. In nome della promessa, certo non per difendere una particolare posizione.
È la fedeltà al bene comune che deve riemergere, anche andando controcorrente quando necessario. Con la flessibilità di nuove interpretazioni, certo, ma senza accreditare fughe o falsificazioni.
Si deve sapere sostenere il confronto ed affrontare i conflitti che saranno diffusi, anche duri e freddi, su questo cammino, sminando coscienze e svelenendo pensieri e paure: assumendosi il compito di richiamare alla fiducia, alla forza di trasformazione che insieme si sprigiona, al dovere reciproco. Ci vuole chi curi la tenuta dei legami sul cammino e l’apertura a nuovi legami; che sia attento all’orientamento, al passo. Un cammino condiviso, nessuno escluso, non avviene senza confronti impegnativi dai quali si tenderà a rifuggire. Un tempo d’esodo non è tempo di tiepidezza, chiede capacità di visione, senso della dedizione, cura del futuro di altri, della fedeltà alle consegne ricevute. “La riconciliazione riparatrice ci farà risorgere e farà perdere la paura a noi stessi e agli altri”. (Fratelli tutti, n 78)

“Siamo stati capaci di cose che mai avremmo pensato di essere in grado di fare: abbiamo garantito legami nella quotidianità, giorno dopo giorno”, hanno testimoniato il sindaco ed il curato di Nembro (il paese della Val Seriana con le ferite più profonde per la pandemia). Molti sentivano di essere tenuti in mano da altri, tenendo a loro volta in mano la vita dei vicini. “Ho avuto la sensazione che molte donne e molti uomini siano stati capaci di questo perché hanno sentito che dovevamo preservare una sorta di integrità dell’anima”. Quanto detto trattiene una bellezza unica: nei momenti di svolta, di fatica, ci sono donne e uomini che provano a tenere l’integrità della propria anima, per sé e per altri, con e grazie ad altri. Nel luogo dell’incontro tra i corpi, nel luogo in cui l’incontro tra i corpi origina nuove forme della convivenza, ma anche nuovi ritmi e riti nelle forme della vita comune.
Oggi c’è da fare una pulizia della mente e del cuore, dei pensieri e delle attese se si vuol preservare l’integrità della propria interiorità. C’è un lavorio di pulitura, di chiarificazione, di ricapitolazione per un esercizio di libertà responsabile, di libertà giocata con altri, con generosità.
Occorrerà trovare il gusto della parola: quella che cerca la vita, la domanda, la verità; quella che disegna tra noi desiderio e legame, patto e sogno condiviso; quella che sceglie, che osa, che impegna alla giustizia. E insieme occorrerà trovare il gusto del fare, del fare le cose bene, del fare cose buone, del fare giustizia. Sono i gesti che ci dispongono, e quasi anticipano quel che sentiamo e crediamo. Nel nostro fare mostriamo la nostra disposizione, la nostra presenza, l’attenzione e la fedeltà che portiamo dentro. Alla realtà dell’altro in modo particolare.
I gesti, nel loro “anticipo”, ci svelano anche a noi stessi. Certo, possono dire, e a volte dicono, distanza funzionale, concentrazione sulla tecnica, ritegno e ristagno nel ruolo, calcolo e utilità in raffinato cinismo, previsione di profitto. Ma i gesti, anche nel fare organizzato, d’esercizio o economico, a volte però interrompono, irrompono e debordano, le logiche “scontate” e si fanno prossimità, sosta, incontro, cura. Come a mantenere una promessa, come a tornare all’origine. Sono gesti di un fare che trova l’origine: la destinazione, il riconoscimento, la pietà, l’ospitalità, la generatività. Gesti con una forza simbolica: faccio la mia parte, rispondo e non mi sottraggo, e pure indico e inizio strade, e condivido possibilità da aprire. Non per forza per noi, subito, ma per altri che verranno, che stanno nascendo, crescendo. Un fare che non è solo un fare, ma è un fare avvenire.

Comunità come soglia


Una comunità cristiana sentirà la forza di una chiamata ad essere luogo di riconciliazione, operatrice di giustizia e di pace.
Offrirsi come luogo di riconciliazione chiede un’intensa cura sullo stile di vita e di relazioni della comunità, chiede preparazione, attenzione, spirito di verità e di dedizione. Di cui essere segno e luogo di coltivazione: sobrio, esigente, riflessivo, meditativo. La vita, soprattutto segnata dalla pena e dalla pesantezza ha bisogno di ascolto, d’essere raccolta e accolta. Con le sue ombre, incompiutezze, bassezze. In luoghi dove rifare fiducia e verità, in luoghi di riconciliazione. Sono molte le persone, le famiglie e i gruppi sociali, che non vivono la convivenza come riparo, come sostegno e accoglienza, come protezione in caso di fragilità e come compagnia in caso di solitudine.
La convivenza è vissuta come un luogo di esposizione delle proprie vulnerabilità, difficile da sostenere, a volte luogo carico di minaccia, a volte luogo del giudizio e dell’esclusione, della freddezza e della distanza. In tale contesto gli spazi del conflitto, della sofferenza, della separazione si dilatano e si insinuano nelle relazioni. Sviluppare lavoro di comunità, con le competenze e le attenzioni educative della pedagogia sociale, della psicologia sociale, giuridica e delle organizzazioni, per cogliere e sostare nei conflitti e nelle fratture, oggi chiede particolari attenzioni alle dinamiche del rischio e della fiducia. Sapendo bene che le funzioni ricompositive, di mediazione, di “terzietà” sono anche quelle che si sperimentano nelle capacità di farsi carico del rischio, dell’ombra, della “pericolosità” e del rancore dell’altro.
I conflitti e le fratture nella convivenza, di cui i reati sono (solo) uno dei fenomeni e delle espressioni, si esprimono in tre forme. La prima è quella dei conflitti espliciti, dichiarati, agiti e giustificati. Spesso conseguenza di dinamiche di “costruzione del nemico”, altre volte legati a “malattie dell’identità” e al nuovo spazio per l’agito dei rapporti di forza. La seconda è quella che vede esprimersi un disagio profondo (psichico, esistenziale, relazionale,…) che grida, che “esplode” e che spaventa. Che non sempre si riesce a soffocare, ad anestetizzare; per il quale si evocano interventi di controllo. La terza è quella delle estraneità radicali, delle distanze indifferenti e ciniche, che permettono di disporre e di usare l’altro come “cosa”, di escluderlo e lasciarlo come “scarto”.
Una comunità di differenze riconciliate e di convivialità (Ricoeur, 1993) è “da fare”, la sua tessitura è questione di giustizia, di riconoscimento, di fiducia. Recentemente l’antropologo francese Didier Fassin ha scritto di un confronto che negli ultimi dieci anni si è fatto sempre più aperto e duro tra la “ragione umanitaria”, che ha caratterizzato la fine del secolo scorso e la “ragione securitaria” che ha preso sempre più forza nel secolo presente. “Occorrono percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite, c’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia”. (Fratelli tutti, n 225)
Le nostre comunità sofferenti vedono a rischio esperienze che abbiano il carattere della soglia dell’incontro. Soglie che l’incontro promuovono, sostengono, tutelano. Nella crisi e nella transizione che non si preannuncia come parentesi né come breve, la nostra convivenza fa vivere donne, uomini e comunità nel tutto saturo delle appartenenze e delle solidarietà perimetrate e, insieme, nell’insaturo delle relazioni di estraneità e indifferenza. I luoghi di cura dell’incontro assumono spesso i tratti di luoghi di riconoscimento e riconciliazione, perché lì si ridà immagine e immaginazione, forma e orientamento alla vita comune.

Si possono pensare a tre caratteri propri di questi luoghi sui quali incontrare o fare appoggiare le forme del conflitto e della frattura: il primo è quello che le caratterizza come zone franche di pausa e di sosta, fuori dalle tensioni dure e dai contesti relazionali o sociali “affaticati” nei quali si vive sotto pressione. Zone franche del rispetto, nelle quali non bisogna per forza dimostrare qualcosa o affermare e difendere ragioni: quel che si è viene accolto, il proprio racconto e vissuto sono ascoltati, solo si chiede rispetto e ascolto per i vissuti e i racconti di altri e il coraggio della verità. Fuori dalle dinamiche del confronto, della freddezza, della forza e del giudizio: lì si può apparire gli uni accanto e di fronte agli altri, in dolori e in desideri che risuonano e che a volte accomunano. Luoghi comunitari di accoglienza e di vita, di ripresa e riavvio.
Il secondo è quello proprio delle zone delle parola nelle quali si possono vivere esperienze discorsive e conversazioni inedite, che vengono proposte, permesse, promosse, attese. Grazie anche alla presenza di soggetti capaci di “tradurre”, di rinarrare, di riavviare continuamente le parole e l’incontro. Dentro questa dilatazione di campi di esperienza e nella messa in movimento del gioco delle interpretazioni, si possono dare delle ridislocazioni personali, delle rielaborazioni di memorie e di attese, delle immaginazioni di possibilità di incontro.
Il terzo è quello d’essere zone di passaggio e di transizione verso un modo di essere, di dire, di scegliere, altro. Un modo nel quale tenere e lasciare, insieme, le tracce e i segni delle ferite e delle offese del passato: ricordo capace di far tener fede agli impegni e alle dedizioni reciproche e nuove; luogo della partenza, lasciato verso avvii su orizzonti diversi.
Quanto bisogno ci sarà di donne e uomini che sappiano farsi prossimi, capaci di entrare nel profondo di un vivere segnato dalla prove, dall’incertezza, dal vuoto! Fino a coglierne le attese intime, vissute anche in modo ambivalente o confuso, le attese di vita profonde del tempo, il loro tempo, il tempo vissuto da tante e da tanti fuori da ogni riparo.
Saper cogliere le attese profonde e muovere insieme da queste. Anzitutto per chiarificarle attraverso l’ascolto delle esperienze che provano ad attraversare la crisi, cercando di cogliere e mettere a fuoco il processo di formazione dell’umano che avviene all’interno delle persone. Così che si possano anche mettere in luce, fin dove possibile, le ambiguità e le contraddizioni presenti nelle stesse aspirazioni per renderle un poco più pulite e più chiare, capaci di essere energia per nuovi passaggi, nuovi inizi di cammino.
Le comunità dei cristiani potrebbero costituire ed anche costruire dei contesti in cui sia possibile interpretare pratiche di vita, cure ed attese su queste nelle direzioni, fondarle, a sostegno dei cammini concreti su cui localmente comunità e persone possano inoltrarsi non in solitudine, ma facendo leva su nuove fedeltà e inedite attenzioni reciproche. “L’impegno educativo, lo sviluppo di abitudini solidali, la capacità di pensare la vita umana più integralmente, la profondità spirituale sono realtà necessarie per dare qualità ai rapporti
Il tempo, già da tempo in verità, si annuncia come tempo dei conflitti e delle separazioni, delle offese e delle ferite, del rancore e del sospetto. Alimentati dall’approfondirsi delle incertezze, delle solitudini, del senso di abbandono.

Quanto bisogno ci sarà di donne e uomini che sappiano farsi prossimi, capaci di entrare nel profondo di un vivere segnato dalla prove, dall’incertezza, dal vuoto! Fino a coglierne le attese intime, vissute anche in modo ambivalente o confuso, le attese di vita profonde del tempo, il loro tempo, il tempo vissuto da tante e da tanti fuori da ogni riparo.

Saper cogliere le attese profonde e muovere insieme da queste. Anzitutto per chiarificarle attraverso l’ascolto delle esperienze che provano ad attraversare la crisi, cercando di cogliere e mettere a fuoco il processo di formazione dell’umano che avviene all’interno delle persone. Così che si possano anche mettere in luce, fin dove possibile, le ambiguità e le contraddizioni presenti nelle stesse aspirazioni per renderle un poco più pulite e più chiare, capaci di essere energia per nuovi passaggi, nuovi inizi di cammino.

Le comunità dei cristiani potrebbero costituire ed anche costruire dei contesti in cui sia possibile interpretare pratiche di vita, cure ed attese su queste nelle direzioni, fondarle, a sostegno dei cammini concreti su cui localmente comunità e persone possano inoltrarsi non in solitudine, ma facendo leva su nuove fedeltà e inedite attenzioni reciproche. “L’impegno educativo, lo sviluppo di abitudini solidali, la capacità di pensare la vita umana più integralmente, la profondità spirituale sono realtà necessarie per dare qualità ai rapporti umani, in modo tale che sia la società stessa a reagire di fronte alle ingiustizie, alle aberrazioni, agli abusi dei poteri economici, tecnologici, politici e mediatici”. (Fratelli tutti, n 167)
Le nostre comunità saranno chiamate ad essere luoghi di fedeltà: fedeltà alle donne e agli uomini, fedeltà alla realtà attuale e ad un futuro da pulire, fedeltà alla fraternità tra le generazioni. Certo dovrà esserci una nuova capacità di visione, ma dovrà essere una “visione da dentro” la concretezza del vivere e del convivere con le fatiche e le vulnerabilità delle persone. Ed anche con le possibilità di generosità e di dedizione che da dentro queste vite si possono dare. Una fedeltà che renda fortemente risonanti alle condizioni e situazioni di ingiustizia, esclusione e disequità.
Comunità fedele, e poi comunità povera. Non nel senso di sguarnita ma nel senso di capace di cogliere l’essenzialità: nella forza della responsabilità, nel non promettere esageratamente se non il fatto che sarà lì, prossima, che proverà a tessere con altri, e con continuità, una promessa essenziale. Molto umana è la promessa quando facciamo le dichiarazioni di amore o quando accarezziamo i nostri figli in momenti per loro difficili. È come se dicessimo: “ci sarò, non temere, cammina, riprenditi”. Ecco, questa povertà e questa fedeltà saranno le espressioni di una fraternità per i nostri territori, le nostre città, i nostri paesi.
In tutto questo si intravede una terza qualità: la generosità, la dedizione. La generosità che poco si mostra, che non nasce da una forza ostentata di pensiero, di competenze, di risorse, che pure servono. Generoso è, piuttosto, l’orientamento che si sceglie di dare al pensiero, alla risorsa e alla competenza perché siano offerte, fecondino le potenzialità spesso inespresse delle reti umane vitali.
Grande sfida quella della capacità di fedeltà, di povertà, di generosità, iniziando, camminando. Chiede l’esercizio del “fare posto” a chi fatica ad averlo, a stare nelle dinamiche del vivere; del fare spazio a chi porta fragilità, non per “risolverle” ma per fare entrare nel gioco di responsabilità, di presenze reciproche, di costruzione di luoghi abitabili. Aiutandosi a prender posto gli uni accanto agli altri e così divenendo capaci di una lettura più attenta, più articolata, essere in grado di raccogliere e collegare parziali risorse e frammentate competenze.
Così facendo, pensando e agendo insieme, si potranno alimentare delle correnti positive in cui il lavoro si rinnova, il denaro assume un senso e una forma d’uso diverso, le cose vengono guadagnate, coltivate, ammirate, rese belle in una specie di “danza” in cui ci si prende e ci si lascia, per poi riprendere e lasciare ancora. Quel che resta nel tempo non sono tanto i progetti, ma è altro: lo stile d’incontro, il modo di osservare quel che succede, la scelta di condivisione partecipata. È fraternità, è annuncio.
“Alcuni provano a fuggire dalla realtà rifugiandosi in mondi privati, e altri la affrontano con violenza distruttiva, ma tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre possibile: il dialogo. Il dialogo tra le generazioni, il dialogo nel popolo, perché tutti siamo popolo, la capacità di dare e ricevere, rimanendo aperti alla verità”. (Fratelli tutti, n 199)
L’enciclica Fratelli tutti , come già la Laudato sì, offre una grande indicazione di movimento: indica una dinamica, in atto e possibile: di vita, di relazioni, d’organizzazione della convivenza; una dinamica culturale e spirituale. Una forma di vita dal sapore del Vangelo nella quale possono trovare alimento, appoggio e pratica una nuova politica, una democrazia non disincarnata.
Un movimento come traversando una soglia, e forse meglio: come camminando in un tempo d’esodo. Una rotazione del passato verso il futuro in cui recuperare il senso profondo di una attesa, di una Promessa, nelle biografie, negli incontri, nei legami, nei conflitti, nei saperi con i quali organizzare la convivenza, l’ economia e la cura. Promessa da cui veniamo, dalla quale, figlie e figli, siamo stati chiamati.
Camminare per le comunità cristiane è anche incontrare l’evidenza che portano dentro “qualcosa dell’uomo ferito, dei briganti, di chi va oltre, di chi si ferma e cura” (Fratelli tutti, n 69). Comunità non innocenti, bisognose di misericordia e di riconciliazione, anche dentro loro stesse, sul cammino che le può fare portatrici di misericordia e giustizia, riconciliazione e cura tra le donne e gli uomini, e nella convivenza nella quale tracciano il loro cammino.
Un cammino cercando e provando una forma di vita dal sapore di Vangelo. Forte è “il bisogno di cambiamento nei cuori umani, nelle abitudini e negli stili di vita”. (Fratelli tutti, n 166) Generando processi che avviino riconoscimenti e ricomposizioni, e senso di un cammino comune, un “popolo in cammino”: orientato a pulire il futuro per le generazioni che si aprono alla vita e quelle che verranno. Offrendo loro la vita, e una traccia coraggiosa; nella quale riconoscere e includere soprattutto le fragilità, rompendo i meccanicismi dello scarto, della sola assistenza: integrando, facendo incontrare, attraversando conflitti e separazioni, decostruendo la costruzione del nemico, e dell’odio. Richiamando e alimentando continuamente la forza del bene, della promessa e della dedizione che è in ogni donna e in ogni uomo, pur nella loro non innocenza. Praticando gesti e linguaggi forti e teneri, esigenti e miti. Cristiani adulti, donne e uomini “capaci di avviare processi i cui frutti saranno raccolti da altri, con la speranza riposta nella forza segreta del bene che si semina. La buona politica unisce all’amore la speranza, la fiducia nelle riserve di bene che ci sono nel cuore della gente, malgrado tutto”. (Fratelli tutti, n 196)
In tempo d’esodo occorre operare per rimarginare ferite delle memorie, vegliare sulle cattive nostalgie, fare attenzione alle idolatrie insorgenti, disarmare i rancori e le paure, i sospetti e la cattiva coscienza.

Nel palmo della mano


Quante e quanti si sono trovati, senza avviso, in un tratto di cammino sconvolgente, privati d’ogni appiglio e nessuna consolazione! Proprio per questo toccando su questo sentiero il fondo del vivere! avrebbe detto Luce d’Eramo. Preziosissima vita: increspatura unica, rubata al dominio del nulla (quello del brusio indistinto dei bisogni, dei consumi, delle prestazioni). Poi la vita pare non lasciare traccia: in effetti ciò che resta in fondo è solo il donato, il serbato, il riseminato.

Tutto pare consumarsi: “come illusione svanisce ogni possesso” dice il Salmo di Mario Bertin; anche il possesso della cura amorosa, o quello del chinarsi presso altri. I soli restano, pare, separati; il vuoto resta, pare, spogliato: si va camminando un tratto con il solo abito del primo giorno. E tra uomini e donne, tra donne e uomini “solo una rispondenza dolce, intima, serenamente disperata” sussurra Luce d’Eramo.
Da sminare, abbiamo colto nei giorni, nei mesi, non c’è solo la potenzialità di aggressività e distanziamento a cui la paura può portarci, ma anche il rischio di auto-distruttività e di rassegnazione, quasi una tentazione di lasciare la presa. Perché a volte la vita – quando non manifesta il suo aspetto di promessa, bellezza, giustizia – fatica a essere desiderata. Questo chiede a tutti un intenso lavoro per riscoprire la fiducia come tolleranza dell’esposizione reciproca. La fiducia è un rischio, e certo in certe prossimità c’è anche chi “ti tocca e non ti sente”, e a te che già provavi di non appartenerti più, pare di sentire di non essere più di nessuno. Ma c’è anche la cura, c’è stata per molti, da parte di sconosciuti fatti prossimi.
Chi ha toccato la soglia, e vissuto il “patto” tra amore e morte, vive una particolare responsabilità a rendere testimonianza. Quando ci è capitato di pensare dai margini della vita, i nostri e quelli che incontriamo o presso i quali ci poniamo, viviamo come uno scioglimento, un legame che è slegame: il tempo non si dipana più come progetto, si sospende come luogo di una promessa, di una fedele fraternità.
Ritrarsi, lasciare, scivolare, sfinire. Lontani da presenze, da cure e vicinanze, fuori da parole e sguardi. Incapaci di chiedere, di confidare, d’affidare: sommersi, anche dal devivre. Nel 2020 i sommersi si allontanavano, e si accumulavano in affanni silenziosi, via via senza fiato, con la domanda negli occhi. Poi con occhi come di icone, che trapassavano oltre, lontano, di là dell’orizzonte. E chi era nella cura, di qua della sua linea curva, si ritrovava salvato, salvata, non certo in salvo.
Dopo mesi molto vuoto ed angoscia prende dentro molti e molte, in ragnatele fitte, nei corpi e nell’anima.
Il mondo della vita di tanti è stato colto e tenuto in mano da altri: familiari, vicini ma spesso persone lontane, sconosciute. In insolite fraternità della cura e dell’attenzione. “Tenere in mano” la vita fragilissima e il gemito di altri, senza potersi sottrarre, e sentire la fragilità delle proprie mani che si offrivano, nude e tremanti, è stata l’occasione e la scelta per molti, sul cammino. Farsi vicini, incontrare, è stato ed è incontrare nella cura la propria vulnerabilità, ed anche, insieme, la profondità del desiderio che ci abita, che riprende la prima promessa: non saremo lasciati soli, abbandonati. Siamo figlie e figli che sanno farsi fratelli e sorelle.
Questa chiamata alla cura, che a volte si dà come fraternità tra sconosciuti, può prendere la forma di tratti di cammino condiviso. Sempre che si sappiano interrompere le continuità cieche delle funzionalità, dei miti e delle ragioni che producono le estraneità delle prestazioni, le esclusioni, le disequità e le indifferenze ciniche. Nella cura, ricevuta ed offerta, tratteniamo in noi la grammatica fondamentale della condizione umana, quella ripresa nel piccolo e prezioso libro di Michel de Certau: Mai senza l’altro (1993). Si cura e si favorisce la rigenerazione di fedeltà al presente e possibilità di nuovo inizio. È esercizio adulto, la cura, ma ne sono capaci anche tanti piccoli. Non si sente di donare ciò che si fa, qualcosa su cui si ha possesso e merito;
piuttosto qualcosa che, a propria volta, si è accolto e ricevuto. E se prossimità e cura giungessero sul finire, la mano avrebbe tenuto la promessa, come una carezza in fine.
Tante e tanti si chinano, a volte intervenendo e spesso impotenti, per tener viva una danza di sguardi, di tocchi e carezze. Tenerci negli occhi: uno a uno, una a una, come a salvare il nome proprio di ognuno.

Fraterne generosità


Farsi prossimi non è solo dare un po’ di tempo. È piuttosto una “piegatura”, un “chinarsi” del proprio tempo presso il momento e la condizione dell’altro. Simone Weil direbbe attenzione: ai suoi gemiti, alla sua attesa. È tempo dato a lui: perché l’altro, accolto, possa ancora sentirne il battito, e la possibilità. La cura è cura del tempo con e per l’altro. Come quando cresciamo le figlie e i figli. E la vita resta, o torna, promettente; la vita è tempo d’incontro.
Il lavoro, il lavoro sociale e di cura in tempo di pandemia, certo anche il lavoro pastorale (ma anche il lavoro nei servizi, quello politico amministrativo, ed il lavoro tour court) prende, e non poche volte, la forma della messa in comune del tempo e della vita, delle risorse personali, delle competenze, delle conoscenze e anche delle sensibilità. Diviene anche dono della presenza, persona a persona del e nel lavoro di tanti (pur nelle grandi cautele, dei vincoli, del distanziamento). Questo nei servizi alla salute, certo, ma anche in quelli sociali, di garanzia dei beni essenziali (pane, acqua, energia, …), educativi. Ci sono state e ci sono defezioni, certamente ci sono state e ci sono titubanze, ma non è stato e non è raro vederle “vinte” dalla generosità. Si sono vissuti il lavoro, gli esercizi di ruolo, le capacità e le prossimità nel segno essenziale dell’offerta, della coltivazione della vita, dell’azione che costituisce senso e buona relazione. Da parte di donne e uomini non perfetti, non innocenti ma nella possibilità d’essere giusti. Senza cercare restituzione, almeno non una restituzione diretta. Lavoro e dono generativo, piuttosto, di una possibile diffusione d’attenzione: in una “restituzione” molto più ampia e aperta, in una sorta di fraternità, di dono fraterno, tra sconosciuti.
Lavoro e dono adulto: cura del futuro d’altri e del fragile; dono genitoriale: lascito e consegna. Nella viva memoria (che è anzitutto memoria dei corpi) del dono ricevuto, della cura ricevuta perché offerta anoi. Servire per l’aiuto ricevuto, tutela d’altri per la sollecitudine che ci ha costituiti. Ci si è offerti da accolti, da vulnerabili. Mostrando che “è ancora possibile scegliere di esercitare la gentilezza. Ci sono persone che lo fanno e diventano stelle in mezzo all’oscurità”. (Fratelli tutti, n 222)
Ci si può chiedere se sia una dimensione solo da “tempo d’emergenza”. Certo, nell’emergenza è più evidente, chiamati come si è a un gioco in verità, che chiede una volta per sempre di togliere cosa portiamo in noi, il fondamento e il fondo nostro. Non è scontato, il dono, neppure in emergenza: il gioco di verità fa emergere anche l’ombra, la paura può attivare anche distanza aggressiva. D’altra parte anche in tempi senza emergenza le dinamiche del dono si aprono, a segnare strade attese e desiderate da dentro le contraddizioni e i conflitti.

Ogni gesto e ogni moto di coscienza nei mesi acuti della pandemia sono stati, se così si può dire, chiamati a una verità nuova. Come se si trovassero esposti, se dovessero trovare il loro fondamento, se dovessero essere offerti, e si trovassero ad essere destinati.
Le odierne distanze tra noi sono anche sensazione intima della comunità di destino che ci lega, ben sapendo che siamo presi da legami e slegami, per citare Paul Ricoeur. Viviamo lo slegame e il legame, tutti e due, con l’obbligo per le nostre coscienze di preservare l’altro dentro una zona di riguardo e di riparo. Che è la stessa zona di riguardo e di riparo che chiediamo per noi, di cui noi stessi abbiamo bisogno: le mascherine, le distanze, i distanziamenti, come li chiamiamo, in modo forse improprio. Sono distanziamenti che ci fanno sentire nostalgie, ci fanno sentire, addirittura, di abitare dentro il presente dell’altro che non è qui vicino, con un’intensità che quando era vicino non avvertivamo. È una specie di riserbo, intriso della drammaticità del nostro tempo.
Tutto questo chiede una “capacità di sentire” che attraversi il nostro pensare e il nostro fare, e la loro inadeguatezza, per abitare questo tempo. Pur vivendo in un tempo che chiede ricerca di verità, dobbiamo ancora incontrarla del tutto la verità di un tempo drammatico, ma che riesce anche ad essere sempre un po’ intriso di tenerezza. Nella verità del “fondo” del nostro tempo c’è da “sminare” l’atteggiamento verso il vivere, scosso dalle nostre paure e dalle nostre freddezze. Ma c’è anche la “delicatezza delle carezze”.
È un lavoro umile, pratico, per donne e uomini che hanno scoperto cosa viene loro chiesto, cosa è atteso, donne e uomini non innocenti che, tuttavia, anche con l’incertezza e con la rabbia possono riuscire a fare i conti perché si intestardiscono, anche contro l’evidenza, soprattutto a leggere i segni del dono e della bellezza attorno a loro, quelli delle prossimità generose che rendono più buona la vita.
In questi mesi resistere ha chiesto a tanti operatori, a tante persone un intenso lavoro, anche su di sé, per riscoprire la fiducia come sostegno dell’esposizione reciproca. La fiducia è un rischio. E lo han vissuto e vivono tante e tanti che non possono che affidarsi, vedersi ri(con)dotti in mani d’altri. Abbiamo costruito per decenni un legame basato su prestazioni, terapie, interventi, scambi e assicurazioni. Ora arriva un virus che ci fa sentire esposti gli uni agli altri, però non possiamo curarci se non avvicinandoci e, quindi, rischiando l’esposizione. Esposizione e rischio si danno insieme. La capacità di entrare in relazione tra noi è questione di “perdono”, offrendoci credito nonostante la scoperta del nostro limite, ci rendiamo prossimi per dono.
La fiducia, il lavoro e la cura non possono che nascere dal fare “comunità di pratiche”, nelle quali sentire una comunità di destino. La disciplina che stiamo scoprendo di nuovo come valore è la capacità interiore di un buon orientamento delle energie per cercare se stessi nel buono e nel giusto.
Questa la trasformazione profonda: la scoperta del legame essenziale tra lavoro, dono e vulnerabilità, tra lavoro, dono e cura, tra lavoro, dono e offerta, e senso della vita. Il lavoro di cura è apparso, anzitutto, come dono povero una risposta alla domanda di affidamento: riuscire a vivere nell’esposizione, da vulnerabili e fragili. Povero e prezioso, come la cura del primo palmo della mano. Necessario nella condizione di bisogno e d’abbandono, in una fragilità e un’ansia che possono farsi angoscia.

In La persona e il sacro, Simone Weil scrive “Dalla prima infanzia fino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, anzitutto che è sacro in ogni essere umano”.
Ci sono uomini e ci sono donne che osservano con meraviglia, che si fanno prossimi e che curano le singole differenze, le fragilità e le ferite di ogni vita che incontrano. Sono appassionati da una specie di antropologia delle vulnerabilità e delle differenze: cercano, colgono, proteggono, valorizzano quelle differenze che continuamente irrompono nella norma, rendendola instabile, evolutiva. Sono attenti a quelle fragilità, a quelle particolarità, che spesso fioriscono nelle crepe, nei limiti, nei margini, nelle distorsioni delle storie, dei corpi, delle comunità familiari, delle relazioni sociali. Nelle quali si vanno soffrendo e riaprendo forme di vita, ricerche, resistenze, adattamenti. Ed anche, appunto, fioriture nuove e improvvise.
Sì, proprio la vulnerabilità, che spesso è il tratto manifesto della differenza, della prova, dell’ingiustizia per questi uomini e per queste donne, va raccolta perché riporta all’origine. Perché richiama alla relazione che rende possibile di nuovo la vita e il suo narrarsi ancora, ancora prendendo forma. Quella relazione che viene rigenerata dalla vulnerabilità come possibilità e come obbligazione.

“San Paolo menzionava un frutto dello Spirito Santo con la parola greca chrestotes (Gal, 5,22), che esprime uno stato d’animo non aspro, rude, duro, ma benigno, soave, che sostiene e conforta. La persona che possiede questa qualità aiuta gli altri affinché la loro esistenza sia più sopportabile, soprattutto quando portano il peso dei loro problemi, dello urgenze e delle angosce”.

(Fratelli tutti, n. 223)


All’origine la relazione, all’origine vite vulnerabili offerte e affidate: danze di forme e di narrazioni di convivenza sorprendenti. Ci sono donne e uomini che nella loro vita incontrano il limite e la fatica di molti, il declinare e il sottrarsi: lo accolgono e lo accettano. Non provano a disporre o a controllare, non cercano di risanare o di salvare: provano piuttosto presenze, compagnie, un sentire attento, un profondo riconoscimento, un rispetto accorato.
Questi uomini e queste donne di parola e di gesto, di iniziativa pubblica e di testimonianza personale, hanno cercato e cercano l’inizio continuo della vita nelle pieghe anche un poco oscure, certo sofferte, delle vite fragili. Lì indicano la preziosità di cercare l’incontro, l’inizio: nel suo resistere, nel suo trovare forme e sussulti particolari, nel suo chiamare vicinanze e riconoscenze di corpi, di gesti, di desideri.
Pensando ai figli dell’uomo scriveva Paul Ricoeur che “la vita è più della spontaneità, della motivazione e del potere, è una certa necessità d’esistere”; lo stesso entrare nell’umano ha un carattere flottant, incerto, titubante, sospeso e fluttuante. Rivela una passività un affidamento, una esposizione irriducibile dell’essere in vita.
Durante la pandemia si è distribuita una certa fedeltà al presente, e anche un poco di possibilità di futuro. Come fanno gli iniziatori, i passatori. Nel tratto di cammino che sta di fronte a noi, c’è da sperare che siano fortemente presenti gli iniziatori e non i nostalgici dai sentimenti mortiferi, cioè i nostalgici che proveranno a riproporre il triangolo merito-successo-competenza al quale affidare tutto e tutti, cui delegare il decidere. Abbiamo bisogno di persone capaci di scegliere ma che siano, insieme, capaci di coinvolgere tante energie positive nelle scelte: capaci di una coralità di dedizione generosa, di attenzione disciplinata e coerente verso il futuro. Gli iniziatori veri non stanno da soli; i nostalgici sì, vogliono stare da soli, vogliono deleghe. Gli iniziatori somigliano ai coltivatori, ai perlustratori insieme ad altri, ai valorizzatori delle energie esistenti. Sono quelli che provano a chiedere di stare attenti gli uni gli altri perché i futuri possibili si facciano vedere, si annuncino, siano anticipati.