Il capitalismo “ecologico e inclusivo”: due esempi bergamaschi. Qualcosa sta cambiando

La caduta del sistema degli Stati comunisti nel 1989 ha aperto un’autostrada all’ultima incarnazione del capitalismo che Branko Milanovic ha definito “capitalismo liberal-democratico”. Tanto che qualche anno fa il sociologo americano Jason W. Moore aveva invitato a prendere atto della “totalità organica della vita, della biosfera, della produzione e della riproduzione” e pertanto a classificare in modo più pertinente l’epoca in cui stiamo vivendo non più come “Antropocene”, ma come “Capitalocene”. Il Capitale avrebbe integralmente assorbito nel suo circolo non solo la storia umana, ma anche la natura. Dunque ben oltre l’economia-mondo di F. Braudel, fino all’ecologia-mondo, in cui anche la natura viene sussunta sotto i rapporti di produzione capitalistici.

Insomma: un capitalismo senza freni. Torna, ad intervalli irregolari, la distopia radicale, tanto di sinistra quanto di destra, del Leviatano capitalistico mondiale che divora il pianeta e che, si prevede, finirà per bruciare se stesso in un olocausto universale. La natura, che è il ramo sul quale sta seduta la produzione umana e perciò la storia, rischia di spezzarsi. 

Come impedire una tale catastrofe? Liquefatto da tempo il proletariato mondiale, anche le campagne del mondo hanno smesso di assediare le città, tendono anzi a “diventare città”, i poveri del mondo stanno uscendo dalla povertà… Qual è dunque la potenza alternativa, in grado di fermare la corsa del capitalismo verso il baratro della civiltà umana? Non certo “il capitalismo politico” cinese, sempre secondo la classificazione di B. Milanovic, che sembra esporsi, anch’esso, alle accuse di Moore di includere l’ecologia-mondo nel circuito perverso produzione-consumo-distruzione. 

C’è chi spera nella furia redentrice del Covid, che è arrivato a farci urtare brutalmente contro i confini naturali-biologici dello sviluppo. Ma si teme che l’intervallo sia breve. Poi la giostra ripartirà, più vorticosa di prima.

Preso atto che non si dà un sistema alternativo a quello capitalistico, perché non esiste propriamente “un sistema”, ma solo un modo di produzione, determinato dalla storia e dalla natura, forse è il caso di decifrare meglio che cosa sta accadendo dentro il modo di produzione in atto, dentro il capitalismo reale. 

Prendiamo qui, a caso, due casi di capitalismo reale: il gruppo FECS e il Gruppo Scame, ambedue in terra bergamasca. 

Il primo ha sede a Verdellino, sulla linea Bergamo-Treviglio, propaggini bergamasche della pianura padana; il secondo a Parre, Alta Valle Seriana, montagna.

Il Gruppo FECS, di cui è presidente Olivo Foglieni, opera nel settore dell’economia circolare: 10 società, 7 stabilimenti produttivi, di cui 1 in Romania, tutti gli altri in Italia, 300 dipendenti, fatturato di 350 mln di Euro.

Ogni anno recupera 900 milioni di lattine, 150 mila tonnellate di rottami, che vengono restituiti sotto forma di 80 mila tonnellate di lingotti di alluminio e di 7 milioni di radiatori all’anno. Dal punto di vista ecologico, significa un risparmio annuo di quasi 10 milioni di kg. di CO2 e di circa 5 milioni di KW. 

Che un’impresa che fa profitti con il riciclaggio sia ecologica va da sé. Solo la salvezza della natura? Alle spalle dell’imprenditore sta l’idea, parola di Foglieni, che “l’impresa non è più unicamente soggetto preposto alla massimizzazione dei ricavi, ma è integrata sempre più in un contesto sociale di cui è parte”. Il territorio non è un giacimento di risorse da sfruttare, ma una comunità, una placenta dentro la quale l’impresa nasce e si sviluppa. Di qui le attività sociali, i centri per anziani, un centro di ricerca biomedica, il dono di macchinari agli ospedali… Filantropia furbesca di vecchio stampo, per salvarsi l’anima e risparmiarsi lunghi anni di Purgatorio? In realtà si sta facendo strada tra gli imprenditori la percezione che non solo le risorse naturali non sono infinite, ma che quelle umane, gli ambienti sociali, le comunità devono essere rivitalizzati e protetti, giacché questa è la condizione della produzione e della conseguente distribuzione della ricchezza e, si intende, della remunerazione del capitale. Di qui la cura particolare per i dipendenti, che non sono un costo, ma una risorsa. “La mancanza di figure professionali, di addetti, di maestranze è sempre più il problema futuro dell’imprenditore. Pertanto, condivisione, attrattività, welfare, cura dei luoghi di lavoro, servizi a disposizione per le maestranze sono [1] obiettivi, che fino a qualche anno fa non erano neanche declinati e che oggi sono all’ordine del giorno anche nei consigli di amministrazione. Il bene del dipendente è un bene mio e viceversa”. Also Sprach Olivo Foglieni, imprenditore nato da famiglia contadina bergamasca di pianura!

La musica è la stessa, se andiamo su in montagna, alla SCAME di Parre, azienda che produce materiale elettrico civile. E’ nata dal lavoro a domicilio, all’ombra del campanile, al suono dei campanacci di mucche e pecore. Il gruppo ha 700 dipendenti, un fatturato di 120 milioni, 15 filiali nel mondo. Agostino Piccinali, direttore Risorse umane, ne illustra la filosofia di impresa. Anche se formalmente non viene ancora redatto “il bilancio sociale”, “c’è consapevolezza che un’impresa utilizza fattori produttivi forniti dal territorio; che, pur rispettando le norme ambientali, ha un impatto estetico, acustico, chimico sul territorio; che in qualche modo deve restituire al territorio in termini di supporto ad eventi, formazione, compensazione ambientale. Ma, soprattutto, è da un amore storico per la propria terra che hanno origine le iniziative dell’impresa verso natura, persone, cose del territorio”. 

Sono due esempi. Ma sono circa 400 le piccole e medie imprese cresciute lungo il Serio, l’antico Sère celtico, che vuol dire “corso d’acqua” e che continua a suonare così nel dialetto. E come queste molte altre, in ogni valle e pianura d’Italia, non tutte probabilmente allo stesso livello di coscienza imprenditoriale.

E’ facile osservare che il mondo è assai più grande e che per ora solo le aziende del nostro mondo sviluppato si possono permettere un lusso etico-ecologico che in Cina, in Asia, in Africa resta un orizzonte lontano.

Tuttavia, sta accadendo un cambio di paradigma. 

“Il proposito di un’azienda non è più soltanto o soprattutto il profitto per gli azionisti”. Così la “dichiarazione di principi” della Business Roundtable, grande associazione della Corporate America con oltre 180 imprese che impiegano dieci milioni di dipendenti. Al centro non ci sono solo gli azionisti, ma i lavoratori, i fornitori, l’ambiente e la comunità. Una nuova carta etica, insomma. Perciò le imprese sono invitate a produrre annualmente una “dichiarazione non finanziaria” che dia conto di come gli investimenti e le azioni imprenditoriali rispettino le tre direttrici ESG  (Environment, Society, Governance). 

Facile far notare che tra la grammatica e la pratica a volte si interpone un abisso, ma è pur sempre il segno che qualcosa sta cambiando nella coscienza collettiva e sul fronte più avanzato del capitalismo globale. Assai meno nei Paesi dove vige un capitalismo di rapina degli uomini e della natura.

Tocca alla dimensione pubblica, alla politica, agli Stati, alle organizzazioni politiche internazionali rappresentare questa nuova intelligenza produttiva emergente e fornirle binari giuridici e politici, per favorire una coerenza crescente tra princìpi e prassi. Costruire una tale rappresentanza è anche il nuovo contenuto di un’antica impresa: quella della politica.