Covid-19 a Bergamo, il ricordo delle vittime. Un cuore fatto a maglia racconta l’intreccio delle nostre vite

Questa mattina, mentre camminavamo verso la redazione, abbiamo incrociato un nonno che canticchiava spingendo la carrozzina con il nipotino, un bimbo di due o tre mesi, beatamente addormentato, cullato dal fruscio dei sacchetti della spesa. Questo quadretto ci ha fatto sorridere, perché sembrava incarnare la parola che più stiamo rincorrendo in questo momento: speranza.
Ma la speranza, come dice il libretto della “Turandot” di Puccini: “è il fantasma che svanisce con l’aurora per rinascere nel cuore. Ed ogni notte nasce ed ogni giorno muore”. Abbiamo fame di libertà e di gioia, ma quello che vediamo – ancora, dopo un anno – sono gli ospedali pieni e la zona rossa.

Il cielo è blu, l’aria è tiepida. Davanti alla “Marianna”, in Colle Aperto, c’è uno splendido albero fiorito sotto il quale le persone sostano, in silenzio, immerse nei loro pensieri, perché anche qui a Bergamo, senza saperlo, ci dedichiamo volentieri all’Hanami – così i giapponesi chiamano la contemplazione dei ciliegi in fiore – simbolo di vita e di rinascita, ma anche della caducità della vita.

In Piazza Vecchia è stato appeso un cuore fatto a maglia: è frutto del lavoro di 14 donne del laboratorio creativo dell’associazione De Leo Fund. Ci hanno messo 1.200 ore di lavoro all’uncinetto e 26 mila metri di filo, ma ci sembra che ne sia valsa la pena, perché questo simbolo che esprime “La cura della vita, un progetto per aiutare coloro che hanno perso una persona cara per un lutto traumatico e improvviso”, è molto potente. Lo è per diversi motivi: perché si trova lì, sulla facciata del Palazzo della Ragione, in un luogo di struggente bellezza, al quale tutti i bergamaschi sono affezionati e che prima della pandemia era sempre pieno di turisti. Perché si trova nella città italiana che questa tempesta ha colpito per prima, infliggendo colpi durissimi: sono morte oltre seimila persone, una lista lunghissima di nomi e cognomi, di volti, di lacrime, di bare allineate nelle chiese e caricate sui camion dell’esercito.
È un simbolo potente anche perché esprime in modo semplicissimo e immediato uno dei concetti cardine di questo ultimo anno: le nostre vite sono fili che si intrecciano, da soli non siamo nulla, ma insieme possiamo generare una forza immensa, inaspettata. Lo abbiamo scoperto quando sui social circolava l’hashtag #molamia e non era un modo di dire, perché c’erano tantissime persone a casa e negli ospedali che lottavano per continuare a respirare, spesso sole, senza assistenza perché erano troppe. In dieci giorni centinaia di volontari gli hanno costruito un ospedale da campo che oggi è diventato hub per le vaccinazioni. In quei giorni bui di sirene spiegate e campane a morto si sono accese le luci di gesti piccoli e impensati di fraternità nelle case: la spesa lasciata davanti alla porta, i bigliettini per chi non poteva uscire, gli sguardi e i saluti dalle finestre, slanci di attenzione e di cura. C’erano gli appelli sui social per aiutare i malati a trovare le bombole di ossigeno, le signore che cucinavano per i medici dell’ospedale e quelle che cucivano mascherine di stoffa. Una grande mobilitazione di generosi per dare una mano in qualunque cosa servisse: ascoltare, alleviare la solitudine, garantire vicinanza spirituale, riparo e cure a chi non aveva niente. C’erano anche – silenziose, umili – le catene di preghiera nelle case per accompagnare chi stava soffrendo. La grande onda del male è passata mostrando quel che resta del bene: ed è molto, moltissimo. Dicono che le difficoltà spingano a far emergere le forze migliori, e noi l’abbiamo toccato con mano. C’è un motivo, però, se vengono richiamate così di frequente le parole del Papa “Siamo tutti sulla stessa barca” e “Nessuno si salva da solo”, pronunciate quella famosa sera del 27 marzo che è entrata nella storia. Non è solo retorica, è che continuiamo a dimenticarcele. In realtà esse tracciano una strada, indicano un’aspirazione, un ideale, non una realtà. Il nostro tessuto di relazioni, quando l’attacco della malattia si è allentato, si è un po’ sfilacciato, sfiancato dalla stanchezza, dal dolore, dall’enormità dei problemi che dobbiamo e dovremo affrontare, dal desiderio di lasciarsi tutto alle spalle. Nel frattempo i morti in Italia sono diventati oltre centomila, in questi giorni della “terza ondata” sono quasi cinquecento al giorno, oltre due milioni e seicentomila nel mondo: oggi la giornata del ricordo è per ognuno di loro, e per quelli che restano, per tutti noi.
La corsa ai vaccini ha messo a nudo tanti piccoli e grandi egoismi: personali, professionali, nazionali. È il nuovo confine sul quale si combatte la guerra per la sopravvivenza fisica, sociale, economica delle popolazioni di tutti continenti, con una disparità stridente tra ricchi e poveri. Le diseguaglianze sono diventate più aspre, più crude, a ogni livello. In questo clima, anche le comunità cristiane sono chiamate a uno scatto di responsabilità: è in periodi come questo che risulta più evidente, infatti, come attraverso l’impegno quotidiano nella vita di tutti i giorni, in ogni ambito, nella cura intesa nel suo senso più alto, si giochi la capacità di rendere visibile e credibile il Vangelo. Ma per riuscirci – dice il Papa, prima di tutto – bisogna avere il coraggio di mettersi in discussione e cercare strade nuove, senza cedere alla nostalgia, convinti che, come scrive Victor Hugo “ciò che fa buio dentro di noi può lasciarsi dietro delle stelle”.