“A riveder le stelle”, un omaggio a Dante. Aldo Cazzullo: “Il poeta che inventò l’Italia”

Il 25 marzo è il “Dantedì”, giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, istituita lo scorso anno dal Consiglio dei ministri, su proposta del ministro per i Beni e le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini, il quale ha dichiarato:

Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa di Italia”.

Quest’anno la data acquista una valenza particolare, perché si celebrano i 700 anni dalla morte del Sommo Poeta, Dante Alighieri, o Alighiero, battezzato come Durante di Alighiero degli Alighieri e noto con il solo nome Dante, nato tra il 21 maggio e il 21 giugno 1265 a Firenze e morto a Ravenna nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. 

Lo scrittore e giornalista Aldo Cazzullo nel libro “A riveder le stelle” (Mondadori 2020, Collana “Strade Blu”, pp. 288, 18,00 euro), racconta “Dante, il poeta che inventò l’Italia”, come recita il sottotitolo del testo, perché parlare di Dante, significa parlare di noi, uomini e donne del Terzo Millennio, che nonostante fuori sia tutto buio, non smettiamo di ricercare le stelle. 

Abbiamo intervistato Aldo Cazzullo, inviato e editorialista del quotidiano “Corriere della Sera”, su cui cura la rubrica delle Lettere, il quale chiarisce il motivo dell’attualità del più grande poeta che l’umanità abbia mai avuto. 

“Dante ama una donna che non c’è più e una patria che non c’è ancora. Una patria che – oggi noi lo sappiamo – nasce con lui”.

Nella primavera del 1300 o del 1301, la notte del Venerdì Santo, qualcuno dice fosse il 25 marzo, altri il 7 aprile, Dante si mise in viaggio per l’aldilà accompagnato da Virgilio, incontrando personaggi quali Ulisse, Didone, il Conte Ugolino, Farinata degli Uberti, Paolo e Francesca, immersi in iconici paesaggi. “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, perché Dante voleva subito chiarire che il cammino negli Inferi riguardava tutti e non solo lui? 

Non sono un dantista, sono un appassionato di Dante e penso che Dante in qualche modo sia stato l’inventore dell’Italia, perché è il primo che parla d’Italia, il primo che parla di Belpaese, inventando questa espressione. Per Dante l’Italia non è uno Stato, per Dante l’Italia è un’idea, è un patrimonio di bellezze e di cultura. Per Dante l’Italia aveva una missione, conciliare la grande tradizione classica, di cui Virgilio è simbolo, con la fede cristiana: la Roma dei Cesari con la Roma dei Papi. Da questo incontro tra classicità e cristianità nasce l’Umanesimo. In questo senso Dante, uomo del Medioevo, è anche un po’, questo non lo dico io ma lo diceva il grande poeta portoghese Fernando Pessoa, il fondatore dell’Umanesimo. Nella “Divina Commedia” Alighieri si rivolge a tutti gli esseri umani e in particolare a tutti gli italiani. “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, nel primo verso della “Divina Commedia” la parola chiave è “nostra”. Dante chiarisce subito che la storia ci riguarda, ci appartiene. Dante siamo noi. Dante si rivolge a noi in quanto esseri umani, perché il suo viaggio non è solo un viaggio nell’aldilà, ma è anche un viaggio dentro l’animo umano fino ai confini di ciò che è in noi. Dante si rivolge a noi in quanto italiani. 

Virgilio, un uomo vissuto più di milletrecento anni prima dello stesso Dante, le cui opere però sono ancora vive, è la guida del Sommo Poeta nel viaggio ultraterreno che sta per avere inizio. Virgilio si presenta a Dante, parlando delle proprie origini lombarde. Ed è qui che c’è la prima grande novità del poema? 

Sì, l’idea che Dante usi la parola “Lombardia”, è commovente. È vero che la Lombardia di Dante non è quella che è adesso. Con la parola “Lombardia” si intendeva genericamente tutta l’Italia del Nord, una parte d’Italia particolarmente industriosa. Dante nella “Divina Commedia” cita anche “la fortunata terra di Puglia”, intendendo genericamente il Sud d’Italia. La “Divina Commedia” è anche un viaggio in Italia, il poeta descrive sia posti che conosce sia posti che non ha mai visto. Dante parla della Sicilia, la definisce “la bella Trinacria”, anche se in Sicilia non era mai stato. Parla dell’Etna, di Scilla e Cariddi, dello Stretto di Messina, di Tagliacozzo e di Benevento, dove si erano combattute le grandi battaglie tra Svevi e Angioini. Dante parla inoltre della sua città, Firenze, e di tutte le città della Toscana, di Roma e del Lago di Garda, dell’Arsenale di Venezia. Quindi ciascun italiano leggendo Dante può ritrovare una parte di sé, della sua storia e della sua lingua, del suo paese. Dante dà all’Italia una lingua, noi parliamo la lingua di Dante, la lingua della “Divina Commedia”. Noi italiani parliamo la lingua di un libro: la “Divina Commedia”. 

La “Divina Commedia”,  “il più bel libro scritto dagli uomini”, per Jorge Luis Borges, ha superato ogni confine temporale, essendo ancora oggi un monumento simbolo della letteratura italiana e mondiale. Dove risiede la grande attualità del poema dantesco, che a distanza di secoli, continua a interrogarci?

Nei sentimenti, nelle passioni, nei vizi e nelle virtù degli uomini, che sono sempre gli stessi. Dante si rivolge all’umanità. I suoi personaggi sono vivi: Francesca da Rimini è viva, Ulisse è vivo, il Conte Ugolino è vivo. Purtroppo anche i vizi degli italiani non sono cambiati, Dante è molto severo con gli italiani: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello!”. Dante dice che noi italiani siamo troppo disuniti tra di noi, ci facciamo sempre la guerra, Guelfi e Ghibellini, Guelfi Bianchi e Guelfi Neri, Montecchi e Capuleti, Dante è anche il primo a parlare di Montecchi e Capuleti secoli prima di Shakespeare. Parlando di Firenze, Dante dice che solo i mediocri fanno politica e i governi cambiano di continuo e una legge decisa a ottobre non arriva a metà novembre. Mi sembra il ritratto dell’Italia di oggi. 

Intere generazioni di studenti hanno imparato a scuola i versi del Sommo Poeta, semmai superficialmente, eppure quali sono i valori maggiori che la “Divina Commedia”, può trasmettere loro? 

Intanto un senso della Bellezza e della cultura. Nella “Divina Commedia” è citato Giotto, sono citati i grandi miniaturisti del tempo. Sono citati Omero, Orazio, Ovidio, Virgilio, Lucano, Platone, Aristotele. Dante cita anche gli Infedeli: il medico, filosofo, matematico, logico e fisico persiano. Avicenna, il padre della medicina, il filosofo, giurista, medico e astronomo arabo Averroè, che aveva commentato l’opera di Aristotele, Saladino, che aveva riconquistato Gerusalemme. L’Ulisse di Dante, è il primo uomo moderno, perché la modernità non nasce dalla saggezza, dal sapere tutto, al contrario, la modernità nasce dall’ignoranza, o meglio dalla consapevolezza di essere ignorante. Tu sai di non sapere e quindi ti metti alla ricerca, ti metti in viaggio. L’Ulisse dantesco è l’uomo che non si accontenta di quello che sa e che viaggia oltre le Colonne d’Ercole, ciò lo rende un personaggio di grandissimo fascino.

È vero che Dante aveva una concezione moderna della donna? 

Sì, in un tempo in cui si discuteva se la donna avesse o no l’anima… È la donna che salva l’uomo ed è Beatrice che salva Dante. La donna per Dante è il capolavoro di Dio, è la meraviglia del Creato. Beatrice è la meraviglia delle meraviglie. 

“E quindi uscimmo a riveder le stelle” (“Inferno”, XXXIV Canto, 139), è l’ultimo verso dell’“Inferno” della “Divina Commedia”, quando Dante e Virgilio contemplano lo stellato cielo notturno. È un presagio del nuovo cammino di luce e di speranza dopo le tenebre precedenti? 

Sì, è un verso immortale, perché rappresenta la speranza, solo che dopo l’Inferno non c’è subito il Paradiso, ma c’è il Purgatorio, c’è la montagna del Purgatorio da scalare. Non è finita per Dante, non è finita per noi. Però la speranza deve esserci sempre. La speranza dell’ascesa, la speranza di salire, la speranza di rinascere, la speranza di migliorarci. Dante descrive nell’Inferno una pandemia, dove i falsari sono puniti con una malattia infettiva che li prostra. Sono uno appoggiato alla schiena dell’altro, senza forze. Scena di una grandiosità terribile. Del resto le pandemie ai tempi di Dante non erano delle dolorose sorprese come per noi, erano delle dolorose abitudini. La generazione successiva, quella di Dante, fu spazzata via dalla pandemia, dalla peste nera, la generazione dopo fece il miracolo del Rinascimento. Ce l’abbiamo sempre fatta, ce la faremo anche questa volta. 

Quanto è importante (ri)leggere la “Divina Commedia”, in un momento particolare come questo? 

Questo è il momento giusto per farlo, non solo perché sono settecento anni dalla morte di Dante, ma perché rileggere la “Divina Commedia” ci aiuta intanto a collocare le nostre sofferenze in un contesto, ogni generazione ha avuto, ha e avrà la sua battaglia da combattere. Quindi ogni generazione ha la sua prova da superare. La “Divina Commedia” inoltre ci ricorda chi siamo noi italiani come popolo, essere italiani è una responsabilità e una opportunità, dobbiamo essere all’altezza del patrimonio di Bellezza, di cultura che i nostri padri ci hanno lasciato. Di questo patrimonio fanno anche parte i valori morali, quindi la “Divina Commedia” ci ricorda quello che abbiamo fatto e quello che possiamo fare.