Tra “chiesa in uscita” e “chiesa di rientro”

Riflessioni semplici di un curato di campagna

Qualche giorno fa, ho letto un post sui social di un sacerdote che stimo, docente di Teologia, che recitava così: Una frenata dopo l’altra, un passo indietro dopo l’altro, la “Chiesa in uscita” è spinta a rientrare nel recinto a tutta velocità. Anziché avviare processi di riforma, si mette puntigliosamente sotto processo ogni tentativo di rinnovamento. Con la benedizione – in questi casi mai negata – di chi aveva lanciato il brand. Nomina nuda tenemus”. 

Una breve contestualizzazione: il post del professore è legato al “Responsum” della Congregazione per la Dottrina della Fede a riguardo della benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso. Il sacerdote, con argomentazioni bibliche e teologiche, ha espresso la sua posizione, in diversi post, affermando chiaramente la sua contrarietà e il suo disappunto per quanto affermato dalla Congregazione vaticana, che ha dichiarato l’illiceità delle suddette benedizioni, in quanto la Chiesa non disporrebbe del potere di impartirle.

Da parte mia, non intendo qui espormi sulla questione: l’ho fatto, come faccio sempre, in alcune conversazioni con amici sacerdoti e con qualche laico disponibile a riflettere seriamente sulla questione, ma preferisco che, su queste materie delicate, ad esprimersi sia chi ne ha le competenze: penso in primis alle conferenze episcopali e ai teologi, anche quelli della nostra Diocesi di Bergamo.

La conferenza episcopale tedesca, insieme a quella belga, hanno già offerto il loro contributo a riguardo del “Responsum”: lo farà anche la Conferenza Episcopale Italiana? E lo farà con una seria riflessione e non semplicemente con una ripetizione di quanto affermato dal documento firmato dal Card. Ladaria? Personalmente ne dubito, ma spero di sbagliarmi: se mi sbaglio, mi batterò il petto e in confessione chiederò perdono.

Quello che vorrei qui condividere, è la sensazione che ho provato dinanzi al post del teologo, che mi ha trovato pienamente d’accordo. Oltre che per la questione inerente il pronunciamento della Congregazione per la Dottrina della Fede, avevo provato questa sensazione, che io non sarei stato in grado di tradurre in parole, quando, nel febbraio 2020, venne promulgata l’Esortazione Apostolica Querida Amazonia. Probabilmente avevo aspettative eccessive nei riguardi di questo documento, anche se non credo immotivate. Il Papa aveva dimostrato apertura nei confronti, ad esempio, della possibilità di ordinazione presbiterale di “viri probati”, almeno in alcune particolari situazioni. Da un punto di vista teologico e di diritto canonico, si era lavorato molto e, grazie all’impegno di teologi e teologhe di spessore, si era giunti a formulazioni valide della teologia e del diritto sul tema. Non vi erano dunque problematiche particolari che impedissero di procedere in questa direzione; inoltre, la maggioranza dell’episcopato latino-americano era favorevole a questa soluzione (avanzata, peraltro, da alcuni vescovi di quelle diocesi, invitati da papa Francesco stesso a formulare proposte coraggiose…). Invece, nulla di nuovo sotto il sole. Perché? La motivazione è evidente anche a chi, come me, non siede “nella stanza dei bottoni” (anche se, su questo, ho ascoltato di persona la testimonianza di chi, invece, lavora proprio a quei livelli ): il Papa, di fronte alla minaccia di scisma di porporati e vescovi contrari, essendo per ministero petrino chiamato a custodire l’unità della Chiesa, ha preferito non firmare quella che sarebbe stata una scelta con conseguenze pesanti per l’intera Chiesa. Non vorrei, lo affermo sinceramente, che anche dietro l’approvazione del documento della Congregazione per la Dottrina della Fede sul suddetto tema, fosse entrata in gioco la stessa dinamica, questa sorta di dispositivo di blocco che impedisce alcuni passi in avanti della Chiesa, nonostante la teologia e la pastorale abbiano mostrato la bontà dei passi stessi per il bene della Chiesa intera.

In fondo, mi sembra sia presente, anche ai massimi livelli della Chiesa, quel pericolo che c’è anche nel piccolo delle nostre parrocchie: si riflette su come procedere nel cammino, si determina che è cosa buona, ma ci si arresta dinanzi alla decisione, perché c’è chi non vuole cambiare nulla, non vuole sentire ragioni e minaccia di andarsene sbattendo la porta. Mi torna alla mente l’inizio della prima Catilinaria, che il professore di latino ci fece studiare accostando il pensiero di Cicerone: Quousque tandem, Catilina, abutere patientia nostra? Fino a quando la Chiesa dovrà aspettare a camminare, per paura di chi minaccia scismi e abbandoni?