La moda “fast” ha costi alti per l’ambiente. Ma c’è chi prova a cambiare rotta

La moda costa. Ma dimentichiamoci per un attimo sandali griffati, collezioni haute couture e sfilate di moda: il costo del mondo fashion oggigiorno non è (solo) quello pagato direttamente dai consumatori per l’acquisto di un prodotto esclusivo, ma è anche e soprattutto quello pagato da ambiente, salute e società per sostenere un comparto produttivo sempre più vorace e sempre più consumistico. In particolar modo, negli ultimi anni a finire sotto accusa è stato principalmente il mondo della fast fashion, cioè quel vastissimo e variegato mondo fashion a basso costo e altissimo consumo che ha contribuito a rendere la filiera di tessile, moda e abbigliamento la seconda più inquinante al mondo dopo quella petrolifera, nonché una delle più opache per quanto concerne diritti umani e rispetto dei lavoratori.

Tuttavia, qualcosa si muove e la sostenibilità del mondo della moda sta acquisendo sempre più valore agli occhi di chi sceglie cosa comprare. E, di conseguenza, anche di chi decide cosa produrre.  Il problema della fast fashion è insito nel suo stesso essere fast, cioè veloce, destinata a un consumo immediato e quindi al facile soddisfacimento di bisogni di acquisto sempre più compulsivi. Il costo estremamente accessibili dei prodotti della fast fashion rende questo meccanismo estremamente semplice, favorendo l’assioma per cui “conviene” comprare continuamente abiti nuovi anziché aggiustare o far durare quelli vecchi. Già, ma conveniente per chi?

L’insostenibilità della fast fashion

Perché questo sistema si regga in piedi, infatti, è necessario un continuo ricambio della proposta. A differenza del passato, quando in un anno venivano rilasciate al massimo quattro collezioni stagionali, oggi la fashion industry vive su una produzione serrata di micro-collezioni (fino a 52 annuali, una nuova a settimana), il che si traduce in un costante rinnovamento delle vetrine e in una altrettanto continua produzione di rifiuti tessili da smaltire. Se a questo si aggiunge l’abbassamento continuo della qualità dei materiali impiegati – anche a fronte di una logica improntata sul massimo risparmio – è facile intuire quanto questo finisca per essere impattante.

Tanto per dare qualche numero: secondo i dati 2019 dell’UN Environmental Programme e del World Economic Forum, l’industria della moda contribuisce per il 20% al consumo mondiale di acqua (a titolo esemplificativo, si sappia che per produrre un singolo paio di blue jeans occorrono oltre 3800 litri d’acqua, e che ogni anno vengono prodotti nel mondo oltre tre miliardi e mezzo di jeans) e per il 10% alle emissioni globali di anidride carbonica, un impatto maggiore di tutte le tratte aeree e marittime mondiali (ovviamente i dati si riferiscono al periodo pre-pandemico). Non solo. Il lavaggio delle stoffe sintetiche è uno dei principali responsabili del rilascio in mare di fibre plastiche, e ogni passaggio della catena produttiva tessile contribuisce a rilasciare nell’ambiente sostanze chimiche, tossiche per uomo ed ecosistemi. È stato calcolato che il 25% dei pesticidi usati su scala globale e l’11% degli insetticidi sono utilizzati nelle piantagioni intensive di cotone per la produzione low cost. A ciò si aggiungono poi le problematiche connesse allo smaltimento dei rifiuti tessili: sempre secondo l’UN Environmental Programme, un consumatore medio compra oggi il 60% in più di abiti rispetto a 15 anni fa e solo il 15% dell’intera produzione tessile viene riciclato o riutilizzato. Il resto finisce in discarica.

C’è poi la questione sociale e umanitaria. Il “ground zero” della fast fashion ha un nome e una data ben precisa: Rana Plaza, 24 aprile 2013. Nel complesso manifatturiero di Dacca, in Bangladesh, quel giorno si verificò un cedimento strutturale che portò al crollo dell’edificio e alla morte di 1129 persone, per lo più lavoratori nelle fabbriche di abbigliamento che producevano abiti e accessori per alcuni dei più famosi marchi low price, tra cui Benetotn, Camaieau, Zara e Mango. L’incidente ha contribuito ad accendere i riflettori sul costo nascosto della fast fashion: abiti scintillanti e sempre nuovi da una parte, e prezzi bassi grazie allo sfruttamento di migliaia di persone nei paesi più poveri del mondo, lavoratori e lavoratrici spesso senza tutele economiche né sanitarie.

Un cambio di passo

Il problema è complesso e articolato, eppure non mancano i segnali positivi. La sempre maggiore consapevolezza sulle contraddizioni della moda usa-e-getta ha creato negli ultimi anni una contro-domanda di sempre maggiore etica e trasparenza e la scelta per un crescente numero di consumatori di prestare attenzione al riutilizzo degli abiti, alla loro provenienza e al loro reale impatto ambientale, economico e sociale. Secondo il report 2020 sulla moda consapevole (2020 Conscious Fashion Report), redatto dalla piattaforma di ricerca sulla moda Lyst in collaborazione con l’associazione Good on You, le ricerche da parte degli utenti di materiali tessili di provenienza “sana” sono cresciute a dismisura: da inizio 2020, è stato osservato un aumento del 37% nelle ricerche di parole chiave correlate tra moda e sostenibilità. Una tendenza confermata anche da un’indagine di Trustpilot in collaborazione con London Research, secondo cui lo shopping di 4 clienti su 5 a livello internazionale viene influenzato da scelte etiche. In Italia, il 92% degli intervistati ha dichiarato che smetterebbe di acquistare da un brand privo di standard etici.

Che l’aria stia cambiando lo dimostra anche la crescita di imprese, start up e realtà locali attive sul fronte dei filati naturali, sulla produzione tessile a bassissimo impatto, sulle tinture ecologiche e sul riutilizzo e riciclo di materiali. Ma lo dimostra anche il revival del second-hand, che tra swap party (momenti di scambio di abiti e oggettistica, organizzati da associazioni attive sul tema) e negozietti vintage, tra app dedicate e incontri sul mondo dei social sta portando sempre più persone a riscoprire il gusto di indossare abiti “con una storia”. E capaci, in questo modo, di scriverne una nuova per il domani.