Verso l’alt(r)o, la meditazione della settimana: sentire il proprio nome pronunciato con amore

“Tutti dalla mattina alla sera lottiamo perché il nostro nome venga pronunciato come si deve. Lo cerchiamo dappertutto, in un posto di lavoro, in una relazione, in una notizia, in un vestito, in un record, in una passione, in una perversione, nella violenza, nell’ambizione, nella dipendenza e nella distruzione, nel dominio e nel piacere, in una tomba e nella scelta di qualcosa o qualcuno a cui appartenere; perché questo è avere un nome: avere qualcosa o qualcuno che lo tenga al sicuro. Il nome ci fa essere un po’’ meno mortali” 

Alessandro D’Avenia, L’Appello

“Dio disse: Sia la luce! E la luce fu”.

Sono le prime parole di Dio nella Genesi ed è bellissimo che la prima cosa che Dio fa sia dare luce.

Dare luce, dare alla luce e dare un nome sono in fondo la stessa cosa. Ciascuno di noi desidera sentire il proprio nome pronunciato e pronunciato con amore; quando non sentiamo il nostro nome pronunciato, quando non sentiamo nel profondo del nostro cuore che siamo dati alla luce da Qualcuno, lo ricerchiamo instancabilmente.

Lo ricerchiamo al lavoro, lo ricerchiamo in una relazione, lo ricerchiamo quando preghiamo.

Mi ricorda molto quel dialogo che intrattennero Gesù e Nicodemo. Nicodemo andò da Gesù di notte, nell’anonimato ma, forse, alla ricerca di qualcuno che pronunciasse il suo nome, che lo desse davvero alla luce. Ed ecco “Così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”.

Penso che queste parole fortissime ci dicano semplicemente che quella Croce è una chiamata a ciascuno, personale, specifica; quella croce è il modo di Dio di toglierci dall’anonimato e di dare alla luce ciascuno di noi.

Il Risorto è la garanzia che il nostro nome è custodito, è la garanzia della possibilità di rinascere sempre.

Sono tempi di ripartenze quelli in cui ci troviamo, tempi in cui ci stiamo proiettando verso un futuro in cui poter ricominciare a programmare, verso un’estate in cui sentirci davvero liberi. E penso che possiamo correre il grande rischio di proiettarci verso qualcosa che non è ancora, snobbando il tempo presente, snobbando la possibilità di sentire il nostro nome venire alla luce oggi.

Non vuole essere assolutamente una critica al fare, ma se il nostro fare non nasce dal sentirci generati, come può essere generativo?

Se nelle attività che viviamo ogni giorno non sentiamo che il nostro nome è stato pronunciato con amore, che Qualcuno ci ha davvero dato alla luce, come potremo permettere che coloro che ci stanno accanto si sentano chiamati, generati?

L’augurio allora, in questo tempo di ripartenze, è quello di lasciare, dentro al nostro fare, uno spazio in cui sentirci chiamare amorevolmente per nome dal Risorto, come è accaduto a Maria la mattina di Pasqua.