La beatificazione del giudice Rosario Livatino. Intervista al giornalista Attilio Bolzoni

“Picciotti, che cosa vi ho fatto?”, riuscì a domandare Rosario Livatino ai suoi assassini prima di essere ucciso ad Agrigento il 21 settembre 1990 da quattro killer lungo la statale che ogni mattina percorreva con la sua auto da Canicattì ad Agrigento. Del “giudice ragazzino”, nato a Canicattì il 3 ottobre 1952 e morto a 38 anni d’età, la Santa Sede ha riconosciuto il martirio “in odium fidei”, “in odio alla fede”.

La beatificazione di questa figura esemplare di magistrato, giudice incorruttibile, uomo di legge colto e consapevole, dalla vita riservatissima condivisa con i genitori Vincenzo Livatino e Rosalia Corbo, si terrà domenica 9 maggio 2021 nella Cattedrale di Agrigento

Attilio Bolzoni, giornalista del quotidiano “La Repubblica”, che si occupa da più di trent’anni di Sicilia e in particolare di mafia, da noi intervistato ricorda la breve ma significativa esistenza di Rosario Livatino, considerato Servo di Dio dalla Chiesa cattolica e definito da Papa Wojtyla un “martire della giustizia e indirettamente della fede”, e da Papa Francesco “un eroe giusto”.

  • “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Se dovesse raccontare alle giovani generazioni chi era Rosario Livatino, da dove inizierebbe? 

«Dalla sua “diversità”, che poi era la sua normalità. La “diversità” di Livatino in un ambiente giudiziario, si notava, risultava “diversa” proprio in ragione del suo essere persona assolutamente speciale, assolutamente normale, che lavorava. Perché Livatino fino in fondo faceva il proprio dovere, cosa che la gran parte dei magistrati in quel periodo non faceva». 

  • La profonda fede cristiana di Livatino si conciliava rigorosamente con la laicità della propria funzione di magistrato? 

«Penso di sì, per lo spessore, per l’intelligenza che aveva l’uomo. Quindi credo che il sentimento religioso di Livatino abbia dato qualcosa di più nella sua professione. Quel sentimento religioso non solo non l’ha condizionato negativamente o ha reso più difficile il suo lavoro, anzi. Ritengo che questa sua fede abbia aiutato Livatino a fare meglio il suo lavoro. Altroché».  

  • Livatino era giudice di Tribunale, in servizio ad Agrigento come giudice a latere, e si occupava di misure di prevenzione.Qualche anno prima da sostituto procuratore aveva condotto le indagini sugli interessi economici della mafia, sulla guerra di mafia a Palma di Montechiaro, sull’intreccio tra mafia e affari, delineando il sistema della corruzione. Chi sono i mandanti del suo assassinio? 

«Non ho dubbi sui mandanti dell’omicidio Livatino avendo letto le carte del processo. Quella mattina del 21 settembre del ‘90 ero là, tornavo da un servizio a Messina. Mi ero fermato a casa dei miei genitori a Caltanissetta. Il luogo dell’omicidio è a 30 minuti da Caltanissetta. Fui uno dei primi ad arrivare sul posto, al km 10 della SS 640 Caltanissetta-Agrigento, all’altezza del viadotto Gasena. La scena era spaventosa, ricordo che scrissi per “Repubblica” un pezzo intitolato: “L’ultima pallottola in pieno volto”. “La disfatta dello Stato italiano l’abbiamo vista ieri mattina in fondo ad una valle senza alberi. Campi di sterpaglie, pietre grigie, polvere. E giù, molto più giù, dove una volta scorreva un fiume, solo un puntino bianco. Un lenzuolo”. Infatti Livatino, mentre si recava, senza scorta, in tribunale a bordo della sua vettura, una vecchia Ford Fiesta colore amaranto, era stato speronato dall’auto dei killer. Il giudice aveva tentato disperatamente una fuga a piedi attraverso i campi limitrofi ma, già ferito da un colpo ad una spalla, era stato raggiunto dopo poche decine di metri e freddato a colpi di pistola. Tornando alle carte del processo, credo che si sia creato in questi anni un grosso equivoco, indicando nella “Stidda”, quella quarta mafia, o mafia minore, come mandante dell’omicidio Livatino. I sicari appartenevano alla “Stidda”, ma a volere morto Rosario Livatino è stata “Cosa nostra”.  Lo volevano morto, perché Livatino era uno dei pochi, non l’unico, che faceva il proprio dovere. E qui torno al concetto di “diversità” e di normalità per definire la personalità di Livatino. Per far meglio comprendere l’ambiente giudiziario di quegli anni, ricordo che l’allora sostituto procuratore Roberto Saieva e il giudice istruttore Fabio Salamone istituirono un processo di mafia al Palazzo di Giustizia di Agrigento dopo 46 anni. L’ultimo processo alla mafia era stato fatto in epoca fascista. Il dottor Livatino insieme a pochi altri magistrati rappresentavano una assoluta diversità rispetto alla disattenzione, alla pigrizia, possiamo usare anche per qualcuno la parola un po’ più forte: alla “connivenza”. Ecco perché la figura di Rosario Livatino è importante. Ricordo che partecipai ai funerali di Livatino, celebrati nella Basilica di San Diego a Canicattì, dove il magistrato viveva insieme agli anziani genitori. La Basilica era gremita di persone». 

  • Pochi giorni dopo l’omicidio, i colleghi più fidati di Livatino, Roberto Saieva e Fabio Salamone, denunciarono lo stato di abbandono in cui versavano i magistrati impegnati in prima linea nelle indagini antimafia. Lo Stato allora come rispose? 

«Lo Stato sull’emergenza risponde sempre, no? Gonfia i muscoli. Lo Stato non ha mai risposto realmente se non dopo le stragi del 1992, cominciando a rispondere non a corrente alternata ma permanentemente. Anche in occasione dell’omicidio Livatino furono inviati in Sicilia più uomini, più mezzi. Una settimana di clamore sui giornali, dichiarazioni dei vari ministri, ma non credo che la situazione sia migliorata più di tanto negli uffici giudiziari di Agrigento. Il vero cambiamento c’è stato dopo tante e tante altre vittime, dopo l’estate del 1992, dopo gli assassini di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino. Lo Stato italiano per la prima volta nella sua storia, ha reagito veramente». 

  • Nel 1992 Nando dalla Chiesa scrive il libro “Il giudice ragazzino” (Einaudi), “Storia di Rosario Livatino assassinato dalla mafia in regime di corruzione”, dal quale è stato tratto nel 1994 l’omonimo film, diretto da Alessandro di Robilant, con protagonista Giulio Scarpati. Il titolo del libro è in polemica con la frase (1) dell’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che otto mesi dopo la morte del giudice ebbe a dire dei giovani giudici sulla frontiera? 

«Non credo che sia in polemica, è un bellissimo titolo. Rosario Livatino non era tanto ragazzino, forse sembrava più giovane di quanto in effetti fosse. “Il giudice ragazzino”, perché Livatino si presentava diverso dagli altri giudici, con i loro ermellini, dai volti scavati, simboli di una giustizia di una volta. Livatino invece era una figura “fresca”, certamente più bella. Il titolo del libro coglie nel segno la personalità di Livatino, ma senza intenti polemici. Cossiga allora pronunciò quella frase, perché moltissimi magistrati che erano al Sud d’Italia, in Calabria, in Campania e in Sicilia, erano giovanissimi. Ricordo che tutti i principali tribunali furono invasi da magistrati, che avevano appena vinto il concorso in magistratura e andavano in procure di frontiera. A Caltanissetta in quegli anni due magistrati erano “giudici ragazzini”: l’allora sostituto procuratore Luca Tescaroli e l’allora sostituto procuratore Nino Di Matteo, a cui affidarono come primo incarico e come prima indagine, le stragi di Capaci e di via D’Amelio. “Giudici ragazzini”, che hanno dato entrambi ottima prova di sé, nonostante la loro giovane età. Sono stati bravi loro, certo il capo della Procura del tempo, Giovanni Tinebra, è stato un po’ meno bravo di loro. Mettiamola così». 

  • “Convertitevi!”. La beatificazione di Livatino avverrà il 9 maggio p.v., anniversario della storica visita nel 1993 di San Giovanni Paolo II ad Agrigento, quando il pontefice polacco al termine dell’omelia della Messa celebrata nella Valle dei Templi, lanciò un duro anatema contro la mafia. Ce ne vuole parlare? 

«Fu un momento decisivo nella storia della Chiesa. Mai finora un pontefice aveva usato parole così chiare, così dure e così forti nei confronti della mafia. La Chiesa ha fatto dei grandi passi avanti nell’interpretazione e nella valutazione di questo fenomeno. Credo però che a tutt’oggi non ci sia una Chiesa tutta unita nel valutare la pericolosità della mafia. Fondamentale fu l’urlo di rabbia e di dolore di Papa Wojtyla, come le tante dichiarazioni di Papa Francesco contro la mafia come l’ultima: “Strutture mafiose contrarie al Vangelo, scambiano fede con idolatria e sfruttano la pandemia per arricchirsi”. Mi faccio questa domanda: Qualcosa è cambiato oppure queste importantissime esternazioni dei pontefici sono rimaste tali e dunque nulla è cambiato?» 

(1) “Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno..? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta”.