Susanna Camusso parla a Bergamo Festival del lavoro di domani: “Le sfide più importanti restano sicurezza, stabilità e diritti”

“Come possiamo immaginare il lavoro di domani e quali nuove sfide ci attendono?” . Questo e molto altro abbiamo chiesto a Susanna Camusso, prima donna a guidare la Cgil nazionale dal 3 novembre 2010 al 24 gennaio 2019, ora impegnata con le politiche di genere e internazionali del sindacato, uno dei prestigiosi ospiti del Bergamo Festival 2021 (2,3,4 luglio). Il suo intervento al Festival all’ex monastero di Astino sarà alle 18 del 4 luglio.

Quali sono le sfide e i rischi che corre chi lavora ma non è ancora pronto al contesto in cui verrà chiamato a farlo?

Susanna Camusso

«La sfida che riguarda tutti e tutte, al di là dei settori di lavoro, vecchi, nuovi, tradizionali, obsoleti e futuristici, è una sfida di sicurezza. Occorre un lavoro che sia stabile, corredato di diritti, di sicurezza e di salute, pensando in prospettiva, invece, assistiamo di nuovo a una fase in cui si corre e si rincorre la concorrenza, e si perde di vista la sicurezza, non si usano e non si presentano nuove tipologie ai fini della sicurezza. C’è tutta questa narrazione del come cambierà tutto in ragione della tecnologia, però poi non la si utilizza per la salvaguardia delle vite delle persone e per la qualità del lavoro. C’è invece la sfida di cui si parla di più, che è il cambiamento del rapporto tra competenze, esperienza, professionalità e attività lavorativa. Come si integra un percorso lavorativo con percorsi di formazione permanente e come li si diffonde e per riservarli non solo a una élite ma che siano processi che coinvolgono tutte e tutti». 

Un recente studio della Harvard Business School Online ha mostrato come la maggior parte dei professionisti abbia performato meglio da casa. Tanto che l’81%, potendo scegliere, opterebbe per un modello ibrido nel post-pandemia. Perché invece i datori di lavoro insistono sul rientro in ufficio?

«Perché in ufficio i lavoratori sono controllati meglio, questa è l’idea di base dei datori di lavoro, i quali sono convinti che quello che non avviene sotto i loro occhi non sia controllabile. Quella del controllo sui lavoratori è una antica questione. L’autonomia dei lavoratori è il grande fondamento di tutto il tema della contrattazione del lavoro sui modelli organizzativi, quindi in realtà è una depauperazione. Non è vero che tutte le aziende insistono sul ritorno in presenza, molte hanno fatto un po’ di conti e hanno scoperto che la produttività è aumentata e i costi sono diminuiti. L’equilibrio è misto, nel senso che il lavoro è forma di socialità, scambio, la creatività cresce nel gruppo rispetto a quella individuale. Non esiste un modello: “o tutti a casa o tutti in azienda”, in realtà è da immaginare un percorso lavorativo che sia misto, e immaginarlo non solo da casa ma anche da altri luoghi di connessione, quindi in altri orari che non siano solo quelli canonici. Evitando quella mitologia che dice “le donne stanno in cucina e gli uomini nel loro studio”. Questo sarebbe un gigantesco arretramento rispetto ai processi di socialità, libertà e indipendenza del lavoro». 

I sindacati sono scesi in piazza, chiedendo “la proroga del blocco dei licenziamenti”  altrimenti si rischia “una bomba sociale”. Il Ministro del lavoro e delle politiche sociali Andrea Orlando, ha replicato: “Il rischio sociale esiste, presto un intervento”. Che cosa ne pensa?

«Penso che siamo fuori tempo massimo. Non si riescono a trovare soluzioni adeguate anche a rispondere a una pressione che indubbiamente ha effettuato Confindustria, l’idea che la libertà di licenziamento sia  libertà essenziale per le imprese, mentre il tema che noi abbiamo è che la disoccupazione c’è e ce n’è stata tanta, nonostante il blocco dei licenziamenti. In particolare per le donne la disoccupazione è cresciuta. C’è bisogno di una visione che includa anche la protezione sociale, in alcuni settori lavorativi i problemi sono molto seri. Il Piano di Recovery è molto sbilanciato su una dimensione di importazione e di tecnologie e non di crescita della capacità produttiva del Paese, questi sono tutti elementi che preoccupano, visti in prospettiva. Un altro tema è quello che ha dimostrato ampiamente la pandemia, cioè che il nostro sistema di ammortizzatori non è un sistema universale, quindi i settori che più sono stati in difficoltà avranno una ripartenza più lenta. Dare il via ai licenziamenti significa lasciare le persone senza nessuna prospettiva, sostegno e reddito».

Nei primi tre mesi di quest’anno all’Inail sono arrivate 185 denunce di infortunio mortale, 19 in più del 2020. Nel 2021 oltre due decessi sul lavoro al giorno e da inizio pandemia, un terzo delle morti bianche dovute al Covid. Che cosa sta accadendo?

«Credo che ci siano tre ragioni che coincidono. Una è la maggiore precarietà e la maggiore difficoltà che ne consegue per i lavoratori a rifiutare o a proteggersi da situazioni di rischio. La seconda è che non ovunque si sono rispettati i protocolli di sicurezza riguardanti l’emergenza Covid. Abbiamo fatto un grande controllo ovunque potevamo ma in alcuni luoghi c’è stata una cultura di sottovalutazione. La terza ragione è che la prevalenza degli infortuni gravi e mortali sul lavoro riproducono le stesse cause che c’erano cinquant’anni fa. Abbiamo l’intelligenza artificiale ma non abbiamo i sensori che bloccano le macchine se poggi le protezioni. C’è una totale discrasia tra l’inno all’innovazione e poi non la si  utilizza per mettere in sicurezza i lavoratori. Eppure la sicurezza dovrebbe essere la prima attenzione, la cosa più importante. In post pandemia c’è una grande voglia di correre, e chi ci va di mezzo sono i lavoratori più deboli, cioè i precarizzati». 

Dati Istat: su 101mila nuovi disoccupati, 99mila sono donne. La pandemia ha allargato il problema della disparità di genere?

«La pandemia l’ha svelato, non è che l’ha determinato come è evidente dai numeri. Di fronte al blocco dei licenziamenti, dove si sono verificati, dove c’erano forme di lavoro atipiche, contratti a termine, forme di lavoro più precarie che sono caratteristiche delle lavoratrici e non dei lavoratori. Tuttora esiste un pregiudizio nei confronti del lavoro femminile e che è legato alla maternità. La pandemia quindi ha svelato un cosa che sapevamo già e ne ha reso evidente un’altra, cioè la precarietà, la marginalità, lo scarso valore di tutte quelle attività che durante la pandemia sono servite a tutti noi per sopravvivere e che abbiamo scoperto essere essenziali, attività legate alla cura, alla qualità della vita e al benessere delle persone che ha visto le lavoratrici in prima linea, negli ospedali così come nei supermercati». 

Dopo le previsioni incoraggianti della Banca d’Italia anche l’Istat rivede al rialzo le proprie previsioni di crescita per l’Italia. L’Istituto di statistica prevede “una sostenuta crescita” del Pil italiano sia nel 2021 (+4,7%) sia nel 2022 (+4,4%). Il peggio è davvero alle nostre spalle?

«Sì, ci sono settori che sono ripartiti, questo porta con sé attività e circolazione di reddito. Quello che è tutt’altro che chiaro è se questi due fattori, ripresa e attività, risorse e investimenti del Recovery Plan possano determinare anche risultati strutturali di maggiore occupazione oppure mantenere il livello di diseguaglianze sociali che ci sono. Questa è una partita ancora tutta aperta, nel senso che se non utilizzassimo il Piano anche per chiudere la forbice delle diseguaglianze, avremmo un effetto di crescita risultato dal Recovery ma non risolveremo i problemi strutturali del Paese e non avremo una prospettiva di serenità rispetto al futuro. Il Recovery Plan così com’è adesso non incide significativamente sulle grandi diseguaglianze strutturali, a partire da quella dell’occupazione femminile, della valutazione del lavoro e via discorrendo. Non è sufficiente il Pil per valutare che cosa avviene in termini di occupazione e di disoccupazione e qualità della vita delle persone».