La prossima Bergamo

In questo tornante storico la Bergamasca ha un bel problema: gestire la manutenzione e l’ordinaria amministrazione, in modo prudente e oculato come peraltro è sempre avvenuto, oppure sfruttare in modo intensivo questi tempi grami, gettare il cuore oltre l’ostacolo e reinventarsi, rimettersi in gioco con un colpo d’ala, nella consapevolezza che nessuno ha la bacchetta magica. Provare, sperimentare, rischiare. Nel primo caso non avremmo brutte sorprese, ma un tran – tran che garantisce il presente, dove tutto è prevedibile. Nella seconda ipotesi, con il vincolo esterno di cogliere l’attimo fuggente o l’ultimo treno, esploreremmo l’ignoto con tutti i rischi del caso.

Se gli studiosi ci dicono che non stiamo vivendo solo una recessione senza precedenti, bensì una «crisi di civiltà» dove il problema è arginare il peggio per progettare un futuro fuori dagli schemi, allora ci servono nuovi strumenti culturali, nuove mappe per rendere meno precario il contorno del domani. Prima domanda: siamo attrezzati? Seconda domanda: c’è la consapevolezza di un mondo che è finito (anche per i suoi successi, ovvero per missione compiuta) e che va ricercato un nuovo equilibrio fra la dimensione pubblica e una società pericolante? Si dirà che italiani sono sempre gli altri, eppure il gioco della buona società di prendersela solo e comunque con la politica, anche quando ci sono ottime ragioni per farlo, è una scorciatoia autoconsolatoria e un rifugio confortevole.

Due dati per capirci: la nostra terra è da 20 trimestri in recessione e ha lasciato sul terreno 25 mila posti di lavoro. Stiamo meno peggio di altre realtà, ma non siamo più un’isola felix. Resistiamo nel bel mezzo di una dolorosa selezione, dei cicli capitalistici della «distruzione creativa» alla Schumpeter. Un giorno o l’altro ne usciremo e a quel punto, oltre alla conta dei numerosi vinti e dei pochi vincitori (sapendo dove si collocano gli uni egli altri), dovremo anche verificare se un po’ tutti abbiamo fatto la nostra parte. Si fa presto a dire modernizzazione, ma – come si sa – i pasti non sono più gratis da tempo. Anche perché quando avverrà il rientro dalla Grande Crisi, si dovrà ricomporre una società salariale nel frattempo regredita al passato e relazioni umane ferite, se non violentate. Insomma, la Bergamasca è attesa ad una prova di maturità, in cui l’etica della responsabilità dovrebbe essere il principio unificatore un po’ di tutti i soggetti, privati e pubblici.

SERVE UN CAMBIAMENTO

C’è uno scarto fra un certo immobilismo del mondo politico – istituzionale e una società bergamasca che, dalla gente comune all’associazionismo e ai corpi intermedi, si mantiene ricettiva. Partecipa ed è animata da una passione civile, da una voglia di riscatto e da un fervore culturale con pochi uguali altrove, caratteristiche che tuttavia non sempre sono vissute come un patrimonio pubblico. Eppure, e non solo nel profondo, c’è una comunità che non diserta, che agli appuntamenti che contano risponde all’appello. Una porzione maggioritaria ma talora silenziosa, se non autosilenziata. Detto in altro modo: i fondamentali riflettono una storia che non è acqua e in cui il cattolicesimo sociale è l’ala marciante di una diffusa cultura civile pluralistica. Ma in un mondo che cambia troppo in fretta per essere capito e giudicato, oggi serve qualcosa di più al di là delle rendite di posizione: c’è una richiesta di coraggioso cambiamento che sale dal basso e che, se scrutata con sguardo sereno e fuori dai neoconformismi, pone domande «per» e non «contro». A dispetto, beninteso, di una politica che è quella che è, cioè al di sotto dei minimi sindacali, ma che in provincia, come da noi, ha un volto presentabile e dignitoso.

Si può, e si deve, discutere all’infinito sui grandi temi della città, delle infrastrutture che ci sono e quelle mancate (Porta Sud, Montelungo, Accademia Carrara, aeroporto, vivibilità delle periferie) e ci dobbiamo anche compiacere per l’attivismo a più voci per la corsa di Bergamo a capitale europea della cultura e in vista del grande business e della grande opportunità di Expo 2015. Ma nel denunciare i limiti di una politica che non può essere il tutto, onnipotente e onnipresente, dovremmo affrontare almeno altre due questioni.

LA PICCOLA PATRIA E IL MONDO

La prima: con una turboeconomia che viaggia nel mondo global, con l’aeroporto che abbiamo e con la quasi pronta Brebemi, possiamo ancora permetterci di ritenerci una «piccola patria» provinciale che vive della luce riflessa della propria tradizione e di quel termine piuttosto ambiguo che è la bergamaschità, o dobbiamo ragionare in termini di «orizzonte mondo», di Europa? Insomma: accettiamo la sfida dei processi di modernizzazione e della competizione imposta dalla società aperta, quindi con una classe dirigente con una marcia in più, adeguata ai cambiamenti strutturali e con un universo sociale capace di autocritica, di correggersi in corsa e di uno sguardo lungo?

Seconda questione: presi, in questi decenni, dai problemi di crescita quantitativa, abbiamo forse perso per strada l’urgenza di due temi fra loro collegati, cioè l’inverno demografico che avanza e il destino del Welfare. La società bergamasca galoppa verso l’invecchiamento: su 121.316 residenti in città, 28.583 sono sopra i 65 anni, 15 mila sopra i 75 e gli ultraottantenni sono 9.500. Per quanto in questo mondo ci siano storie esemplari di assistenza, non ci sembra che il tutto occupi la parte che merita nel dibattito pubblico di oggi per preparare l’emergenza di domani. Quanto allo Stato sociale, parliamo del vero «tesoretto» della Bergamasca, ciò che per tradizione ha definito al meglio le politiche pubbliche e il solidarismo della nostra terra.

UNA SVOLTA RADICALE

L’impressione, o forse qualcosa di più, è che quel tempo stia per finire non solo per via del Patto di stabilità, della spending review e dei fondi ridotti all’osso. Da qui la necessità di un cambiamento radicale dinanzi ad una svolta che si annuncia irreversibile: un passaggio, tuttavia, in cui si fatica a incontrare intelligenze svelte e disponibili e maturità politiche flessibili. È un punto delicato, ma questa crisi che sta cambiando tutto, compresa la psicologia individuale e collettiva, rivela oggi più di ieri la trappola del dualismo Stato – mercato e una mentalità ancora novecentesca, dal passato certo nobile ma spaiata rispetto ai bisogni e alle compatibilità del 2013. Riprendere in mano, per riformarlo, il Welfare comunitario significa recuperare la mutualità, creare luoghi e spazi per una nuova concertazione, ripensare i servizi, studiare una nuova idea di sviluppo e dove i soggetti sociali siano una componente del progetto e della gestione. Significa dunque superare l’antitesi fra aiuto compassionevole ed erogazione dei servizi pubblici, uno snodo che coinvolge pure la politica che, con meno soldi in cassa, non può più contare su un formidabile strumento di consenso.

L’ultima questione, un po’ sottovalutata nella sua dimensione riferita all’«uomo bergamasco», è la prospettiva che apre l’uno – due della Bassa, cioè la Brebemi e la Tav a Treviglio. Con un doppio esito: una gigantesca infrastruttura che catapulta il territorio sull’asse Ovest – Est, una grande finestra sul mondo, e la ridefinizione in modo inedito della gerarchia geoeconomica della Bergamasca, in quanto sposta il baricentro dalle valli alla pianura. Un mondo rovesciato, che archivia l’identità bergamasca forgiata dal timbro dell’uomo delle valli. D’ora in poi la partita si giocherà sempre più nel perimetro fra Bergamo città, hinterland e Trevigliese ed è prevedibile un ulteriore ridimensionamento delle valli, e in particolare della montagna. Quale futuro per la già spolpata periferia della periferia? Dove andrà la Val Seriana, in gran parte colpita negli anni scorsi dal cedimento strutturale della filiera del tessile, a che destino andrà incontro la Val Brembana, piagata dal calo demografico e dalla desertificazione industriale e bloccata pure da un debordante campanilismo (chiedere ai parroci, fra i pochi soggetti impegnati a fare rete)

Questa, secondo noi, è la traiettoria della nuova modernità nella Bergamasca, la fatica della governabilità che avrà costi e benefici, ma dove ci dovremo essere con idee nuove, sporcandoci le mani perchè il futuro da maneggiare è qui. Scegliere la cultura più adeguata per una ri-partenza possibilmente consensuale o un atterraggio morbido (fate voi) sulla modernità che si affaccia senza chiedere permesso significa anche esprimere una certa idea di società, dello stare insieme. Parola grossa: val la pena discuterne.