A caccia di senso

I migranti hanno bisogno non solo di aiuti economici e sociali, ma esprimono sempre più spesso il desiderio di un’integrazione religiosa, capace di dare un senso rinnovato alla propria vita, in un ambiente ormai lontano da quello d’origine. Tuttavia capita spesso che migranti cattolici, che già vivono condizioni di marginalità, scelgano di abbracciare nuovi movimenti religiosi che non si riconoscono nella Chiesa cattolica. Di fronte a questo fenomeno la Chiesa di Bergamo si è interrogata per capire quali proposte mettere in campo: Caritas e Ufficio migranti hanno promosso una ricerca per comprendere le motivazioni del fenomeno. Don Alberto Monaci, direttore dell’Ufficio diocesano Movimenti religiosi alternativi, delinea alcuni aspetti emersi dalla ricerca.

Quanti sono i migranti che, giunti a Bergamo, entrano a far parte di qualche nuovo movimenti religioso?

«La ricerca si è concentrata sui migranti di origine africana anglofona, francofona, oltre che latinoamericana, realtà che da noi rappresentano una presenza significativa. A Bergamo abbiamo censito tra i diversi movimenti religiosi alternativi una trentina di gruppi che hanno una radice cristiana; molti hanno origine da chiese di stampo protestante, anche se poi alcune assumono un taglio pentecostale o evangelico molto autonomo. Ciascuna di queste chiese è un mondo a sé, né si rifa’ a chiese di tradizione storica. Visto il loro numero è, quindi, sicuro che un numero piuttosto consistente di persone frequenta queste realtà. Del resto basta vedere quanti sono i migranti che partecipano alle nostre messe domenicali: nelle nostre chiese non c’è praticamente nessuno. Anche se bisogna ricordare che non tutti i migranti di origine africana o latinoamericana sono cattolici».

Perché sono attratti da questi movimenti religiosi alternativi?

«Innanzitutto sembrano favorire la crescita di un senso di appartenenza e sono visti come un’occasione d’integrazione. Quando un immigrato non trova un clima accogliente nelle nostre comunità preferisce ritrovarsi con persone che parlano la stessa lingua e provengono da contesti culturali simili; in questi gruppi religiosi si creano anche reti di solidarietà più forti rispetto a quelle che si possono trovare sul nostro territorio. Inoltre in questi nuovi movimenti religiosi i migranti percepiscono un legame molto più stretto tra la vita e la dimensione del sacro: da noi, ormai, si partecipa alla Messa della domenica, ma poi il sacro incide meno nella vita di tutti i giorni. Al contrario in questi movimenti religiosi c’è una spiritualità capace di incidere di più sul “benessere” della persona. Un altro elemento che attrae sembra essere lo spazio maggiore riservato alle donne».

Ma incidono anche condizioni di marginalità?

«Sì. All’interno di queste realtà si creano reti di sostegno che favoriscono  l’integrazione e il sentirsi parte di una comunità. È, però, importante sottolineare che quanti entrano in questi movimenti religiosi non sono solo persone disagiate o di livello culturale medio-basso. Non sempre è così».

Chi sono coloro che abbracciano questi movimenti religiosi?

«È difficile farne un ritratto generale. Di certo si può dire che alcune condizioni di particolare fragilità esistenziale o di ricerca di senso rappresentano un aggancio privilegiato. Un lutto, la venuta meno di orizzonti di senso condivisi, un momento di incertezza economica possono spingere alla ricerca di punti d’appoggio: proprio la presenza di questi movimenti sono la conferma che la ricerca di una dimensione “spirituale” tra i migranti è ancora molto forte».

Come può la Chiesa bergamasca esprimere una proposta alternativa valida per i migranti?

«Innanzitutto lavorando sull’accoglienza: credo ci si debba interrogare su quanto è messo in pratica il Vangelo  della carità e dell’accoglienza rispetto a queste persone. Occorre creare occasioni d’integrazione reale. A Bergamo già ci sono iniziative in questo senso, ma c’è ancora molto da fare. Dalla ricerca emerge, infatti, che se alcune esigenze più concrete legate all’immigrazione hanno già trovato risposte, tuttavia è rimasto un po’ in sordina il bisogno da parte dei migranti di rimettere in gioco la loro fede e la ricerca di senso: a questi aspetti non si è, forse, prestata la dovuta attenzione. Su questo versante la nostra Chiesa si dovrebbe muovere in modo più incisivo».

Con quali iniziative concrete?

«Le nostre comunità potrebbero invitare queste persone a partecipare ai diversi momenti della vita della comunità, magari prevedendo per loro un maggiore coinvolgimento. Quanti, ad esempio, erano catechisti nelle loro comunità di origine potrebbero svolgere questo servizio anche da noi per i propri connazionali che non hanno ancora una conoscenza piena della nostra lingua. Scuole e oratori, frequentati sempre di più dai figli di migranti, sono luoghi privilegiati dove fare questo lavoro d’integrazione».