Immigrati

UN PO’ DI MEMORIA

I dati sono impressionanti: in un secolo, dal 1876 al 1976, 24 milioni di emigranti hanno lasciato l’Italia, e di questi 3 milioni hanno trovato casa in Argentina. Nel gennaio del 1929 la famiglia Bergoglio salpa da Genova sulla nave Giulio Cesare con destino Buenos Aires. Non c’è dubbio che nell’animo di questa famiglia e dei tanti italiani d’Argentina il pensiero verso il naufragio del Mafalda fosse vivo e presente. Meno di due anni prima, il 25 ottobre 1927, infatti, il Principessa Mafalda si inabissava poco lontano dalle coste brasiliane causando la morte di 314 migranti italiani. E cosa dicevano all’estero dei nostri emigranti? Questo è uno stralcio della relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso Statunitense a proposito dei migranti italiani, risalente all’ottobre del 1912: «Generalmente sono di piccola statura, di pelle scura, non amano l’acqua e molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane; si costruiscono baracche di legno nelle periferie delle città dove vivono gli uni vicino agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti, fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che sono dediti al furto e che ostacolati diventano violenti; i nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma soprattutto non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere con espedienti o addirittura attività criminali».

E OGGI?

I numeri lo dimostrano più di molti ragionamenti. Attualmente sono presenti nella bergamasca quasi centocinquantamila stranieri – il 12% circa della popolazione totale – provenienti da oltre centotrenta Paesi. Un cambiamento epocale, avvenuto sotto i nostri occhi, con una rapidità, almeno per l’Italia, che ha sorpreso sia gran parte degli analisti che la gente comune. Di fronte a questioni complesse, il rischio è di cadere nella semplificazione di chi crede che l’immigrazione porti solo problemi e di chi, all’opposto, crede che non ci sono problemi. Occorre invece operare un discernimento che permetta di attraversare con lucidità questa stagione. La premessa fondamentale è però riconoscere il carattere irreversibile di questa trasformazione. Per numerose ragioni, il numero di coloro che lasciano il proprio Paese è destinato, nei prossimi anni, ad aumentare. Una concertazione europea attorno alla gestione del fenomeno migratorio è necessaria e doverosa ma è evidente a tutti che di fronte alla disperazione di popoli e di genti, paletti e confini serviranno molto a poco.

NELLA CITTÀ PLURALE

Quello che è certo che i temi all’ordine del giorno del dibattito politico e civile sono un segno dei tempi in cui viviamo che obbliga, ciascuno di noi, credente e non credente, a fare i conti con quello che il cardinal Scola ha chiamato, acutamente, il processo “di meticciato di civiltà e culture”. Ciò che è in gioco, per noi cristiani è la fedeltà al Vangelo in un mondo divenuto, in breve tempo, plurale per fedi e culture, accompagnata dalla denuncia di un uso strumentale dell’aggettivo “cristiano” a cui ricorrono disinvoltamente i politici di turno proprio mentre mettono in atto comportamenti poco evangelici. Il periodo storico che stiamo vivendo ci obbliga a discernere quanto la Parola di Dio chiede per il bene comune della città. La fede ci domanda di custodire il lievito della differenza evangelica; la cittadinanza responsabile ci rimanda a quel dettato costituzionale che dovrebbe orientare l’agire civile. In una democrazia costituzionale non è che chi vince le elezioni fa quello che vuole. Le Costituzioni sono sorte proprio per delimitare un preciso quadro giuridico a cui attenersi, pur nella dialettica delle diverse scelte operate dagli schieramenti politici. E tra i paletti fissati nella nostra Costituzione, vi è anche quello della libertà di culto. Per questo, l’insistenza in ordine al divieto di costruire moschee corrisponde ad una limitazione “de facto” dell’accoglienza e quindi della libertà religiosa. Una volta nel nostro territorio nazionale gli immigrati sono persone da accogliere e i cui diritti fondamentali vanno difesi e rispettati. E tra questi diritti vi è, senza alcun dubbio, la libertà religiosa. La stessa che, giustamente, chiediamo a gran voce ai Paesi dove i cristiani rappresentano una piccola minoranza. Il fatto che la gente, come spesso si ripete, abbia paura, non significa che si debba per forza acconsentire con essa nell’identificare le origini di questa paura. Significa, invece, ragionarci sopra, e soprattutto ragionarci insieme: nel confronto serio delle posizioni, non solo con la ripetizione di slogan facili e popolari. Così non si costruisce una sana democrazia. Tanto meno una democrazia inclusiva. E ancor meno una città in cui è bello e piacevole vivere. Questo modo di porre i problemi complica la vita di tutti noi. E la rende meno sicura.

IL TUO PARERE

Che cosa pensi di chi dice che gli immigrati vanno respinti perché ormai sono troppi?