Politica senz’anima

Pare sensato – indispensabile, anzi – mantenere distinte la spiritualità e la politica, le convinzioni religiose dei singoli e le ragioni che si possono portare nel dibattito pubblico. Che cosa avviene, tuttavia, quando questa distinzione di principio si trasforma in estraneità assoluta? Secondo il gesuita francese Paul Valadier, docente emerito del Centre Sèvres di Parigi, vi è il rischio che a «una politica senz’anima, relegata nell’immediatezza o nella difesa degli interessi a breve termine», si contrapponga «uno spirituale impersonale, senza carne e senza presa sulla vita sociale».

Professor Valadier, almeno in Italia il dibattito sulla laicità dello Stato sembra girare un po’ a vuoto. La Chiesa cattolica, da un lato, rivendica il proprio contributo storico alla formazione di un ethos civico; dal fronte opposto, viene accusata di voler “colonizzare” gli spazi pubblici, a danno di chi cattolico non è. Converrebbe “fare un reset”, ripartendo dalle parole di Gesù sul tributo da pagare a Cesare e il culto da rendere a Dio?

«La distinzione essenzialmente evangelica tra la Chiesa (o le Chiese) e lo Stato (o gli Stati, perché anche il potere secolare ha cambiato forma, nel tempo) ha inevitabilmente suscitato una serie di dibattiti nel corso dei secoli. Questo, perché la frontiera tra i due ambiti – lo spirituale e il temporale – non è chiaramente tracciata, né potrà mai esserlo, io ritengo. Subito ci troviamo posti di fronte a questioni di legittimità: con quale autorità, la Chiesa prende posizione su questo o quel problema? In nome di che cosa, lo Stato legifera in questa o in quella maniera? Sulla questione di dove corra la linea divisoria tra la Chiesa e lo Stato scaturiscono spesso delle polemiche, ma il principio della distinzione tra il momento religioso e quello politico è sano, alla radice, perché obbliga costantemente le nostre società a interrogarsi sui fondamenti delle loro leggi e delle loro procedure; accresce la vitalità delle nostre democrazie, a differenza di quanto accade nei regimi in cui questa distinzione non è conosciuta o rispettata. Da noi – intendo dire, ad esempio, in Francia e in Italia – sia la Chiesa, sia lo Stato sono obbligati a giustificare con il maggior rigore possibile le loro dichiarazioni e atteggiamenti. In questo senso, non ci si dovrebbe scandalizzare del fatto che il rapporto tra queste due istituzioni non sia mai stato “regolato” una volta per tutte».

L’ASTICELLA DELLA LAICITÀ E LA QUESTIONE DEL BENE

Come antidoto alle nuove forme di fondamentalismo-integralismo, c’è chi propone di alzare l’asticella della laicità, per così dire, e propone il modello di una “democrazia procedurale”, basata sul rispetto delle regole convenute, e non sui valori professati da particolari gruppi di cittadini. Si può riuscire a convivere, mettendo tra parentesi le questioni relative al “bene”, o al senso complessivo della nostra esistenza?

«È ben vero che le democrazie sono “procedurali”, dal momento che implicano l’osservanza di un certo numero di regole e, soprattutto, perché accettano che la discussione pubblica sia il metodo di ricerca delle soluzioni ai problemi collettivi. Ma non ci si può arrestare a questo livello, perché la discussione politica va sempre al di là delle semplici procedure: essa verte frequentemente su questioni rilevanti per l’avvenire delle nostre società (per esempio, in materia di politica familiare o scolastica), per la coesione tra i gruppi umani (fino a che punto si deve giungere, nell’accoglienza ai migranti?) e per l’esercizio della giustizia (quali misure giuridiche sono effettivamente eque? Quali tipi di pene si devono infliggere a coloro che sono giudicati colpevoli?). E ancora: in quale Europa vogliamo vivere? Che cosa dovremmo fare dei nostri vecchi Stati-nazione? Tutti questi problemi rinviano alla nostra concezione del bene: è impossibile istruire correttamente tali questioni – e a maggior ragione, è impossibile trovare dei modi per risolverle – senza interrogarsi sul senso di una buona convivenza tra gli esseri umani e sui presupposti economici, giuridici, sociali del nostro stare insieme. Che lo vogliamo oppure no (e in effetti, molti teorici della politica oggi non lo vogliono, e perciò ripiegano sugli aspetti formali-procedurali) ci dobbiamo confrontare con questi temi, se non vogliamo procedere alla cieca o approdare a soluzioni di corto respiro, senza prospettiva, incapaci di raccogliere l’adesione dei cittadini. Non è, forse, ciò che spesso constatiamo al livello dell’Unione Europea? I suoi organismi di governo e di controllo devono attenersi a regolamenti rigorosi, ma così complessi che i singoli cittadini europei molte volte non ci si raccapezzano. Così, viene da chiedersi: l’Europa, sì, ma quale Europa, secondo quale progetto? Con quale ruolo, in rapporto ad altre nazioni? Detto in breve: noi, oggi, non sentiamo la mancanza di norme procedurali, ma di visioni capaci di mobilitare energie. Nei nostri Paesi non vi è penuria di tecnici né di tecnocrati, ma di responsabili politici che sappiano guardare lontano. Forse potremmo anche fare a meno di un po’ di regolamenti, in cambio di qualche prospettiva ambiziosa in più».

Nell’arena politica, la distinzione tradizionale tra la “destra” e la “sinistra” sembra sfumare, a favore dell’ingresso in scena di governi sempre più “tecnici”. Si sostiene che le questioni di interesse collettivo andrebbero affrontate oggettivamente, scientificamente.

«Ritornando alla questione delle procedure: non dovremmo ammettere che anche la distinzione classica tra “destra” e “sinistra” oggigiorno ha appunto un carattere procedurale, perché consente delle classificazioni agevoli, ma anche grandemente illusorie? In effetti, le differenze ideali o ideologiche tra gli schieramenti partitici vanno attenuandosi, come lei diceva, e la vita politica tende ad assumere un tono anodino e uniforme. Quali sono i margini di manovra dei nostri governi nazionali, sia in rapporto ai vincoli economici e finanziari, sia in rapporto alle esigenze poste dall’Unione Europea? Sono evidentemente limitati, e questo rende difficili delle opposizioni radicali tra i partiti, come quelle che conoscevamo in un recente passato. A me pare che il pericolo maggiore derivante da questa situazione consista nel disinteresse dei cittadini nei confronti della scena politica, davanti a uno spettacolo interpretato da governanti mediocri o comunque impotenti: tutto sembra già deciso in partenza, o altrove, senza tener conto delle preoccupazioni quotidiane delle persone. L’astensionismo, che un po’ dappertutto raggiunge punte elevate, pone un problema grave per quanto concerne la legittimità dei governi, e dunque delle loro decisioni. Un altro pericolo deriva – come accennavo – dell’eccessiva intromissione degli esperti e dei tecnocrati nella vita democratica: l’amministrazione delle cose rischia di prendere il posto del governo degli uomini, e di nuovo, con il pretesto del rigore tecnico, si finisce per distogliere i cittadini dagli affari pubblici. È un fatto grave in una democrazia, dove, in linea di principio, spetterebbe al “popolo” di decidere del suo destino, a non a degli esperti che ritengono di sapere ma non sempre sanno (e a volte, anzi, si rifiutano di ammettere di aver sbagliato)».

IL MONITO DI  ZARATHUSTRA

Lei è un illustre studioso del pensiero di Nietzsche, di Foucault e di altri autori “postmoderni”. Sul piano antropologico noi, oggi, non stiamo vivendo nel tratto discendente della parabola della modernità? Non rischiamo di assomigliare all’“ultimo uomo” descritto nello Zarathustra nicciano, a colui che ricerca «la piccola gioiuzza per il giorno e il piccolo piaceruzzo per la notte – sempre badando alla salute»?

«L’odierna ostilità verso la politica – un’ostilità di cui si nutrono i populismi -, conferma le previsioni formulate da Alexis de Tocqueville all’inizio del XIX secolo. Osservando la società statunitense, egli esprimeva il timore che la ricerca pressoché esclusiva da parte del singolo del proprio “legittimo interesse”, ovvero il ripiegamento sulla riuscita personale e sul successo economico, potesse distogliere i cittadini dalle loro responsabilità verso la collettività, tanto a livello delle comunità locali, quanto della nazione. Secondo Tocqueville un tale cittadino, essenzialmente preoccupato dei suoi affari privati, si sarebbe sottomesso volentieri a un “dispotismo dolce”, al regime protettivo di uno Stato onnipotente, che garantisse all’individuo sicurezza e tranquillità. Nell’epoca attuale, in cui le nostre conversazioni telefoniche e le nostre attività al pc possono di fatto essere controllate da ogni sorta di potentati stranieri o anonimi; in un’epoca in cui migliaia di videocamere sono installate nelle strade e nei grandi magazzini, noi non viviamo già in una situazione di controllo totale e costante, un controllo che si estende perfino alla nostra vita privata? Si possono trovare molte giustificazioni a questa ricerca della sicurezza ad ogni costo, fosse anche solo per contrastare il pericolo del terrorismo; ma bisogna pure riconoscere che essa costituisce un anestetico capace di azzerare la vigilanza dei cittadini. Oggi – come si diceva – rischia davvero di realizzarsi la situazione predetta da Nietzsche, per cui ciascuno sarebbe pronto a rinunciare a tutto il resto, purché gli fosse assicurata la possibilità di “danzare al ticchettio della piccola felicità”. Di nuovo, misuriamo a quale punto l’identificazione dei sistemi democratici con regole neutre e senz’anima sia pericolosa: ci si accontenta, allora, di monitorare come funzioni il sistema, più o meno efficientemente, più o meno caoticamente. E ancora, il predominio degli “esperti” – nell’ambito economico e in quello sanitario, ad esempio – ci può instradare verso un modello di società che, in nome della tecnica, sarebbe pronto a sacrificare l’elemento umano. Quando si esclude dalle nostre considerazioni qualunque valore o criterio che non rientri nella categoria dell’“utile”, non è difficile arrivare ad adottare una politica “eugenista”, che preveda l’eliminazione degli esseri umani giudicati non abbastanza produttivi, o di peso per la collettività».

Torniamo così, indirettamente, alla questione di partenza: come dovrebbero atteggiarsi i cristiani, volendo portare un contributo positivo in una società ormai multiculturale e multireligiosa?

«La Chiesa deve rispettare il principio della mediazione: non può affatto sostituirsi al legislatore o ai governanti; non può nemmeno pretendere che il diritto si conformi per intero alla morale o agli ideali evangelici. Ma può e deve richiamare alla memoria collettiva i valori essenziali e fondamentali, senza i quali le nostre società rischiano di essere vittime di un’ideologia tecnico-utilitaristica. La recente esortazione apostolica di Papa Francesco, la Evangelii Gaudium, insiste molto sulla gioia e la serenità che si accompagnano alla speranza cristiana: ci invita, così, a scuoterci dai nostri torpori e abitudini, e al tempo stesso esorta le nostre società a guardare in avanti, in lontananza. E dunque, che fa la Chiesa, quando annuncia nella sua predicazione, nella proclamazione gioiosa dell’Evangelo e nell’impegno concreto dei fedeli il valore infinito di ogni essere umano, amato da Dio ed eletto in Cristo? O quando annuncia la presenza di un Regno che si costruisce là dove la giustizia, la carità e la fraternità prevalgono sull’ingiustizia, sul rancore e sul “ciascuno-per-sé”? Che fa essa, se non aprire degli orizzonti che trascendono il mero discorso tecnico e procedurale? Non si tratta di negare o di ridurre l’importanza del sapere e del saper fare, ma di ricordare che queste due dimensioni devono accordarsi con il principio della dignità umana e contribuire a un avvenire di pace, di coesistenza, di benessere condiviso. La questione decisiva è: in che modo si può garantire che sia rispettata sempre e ovunque la grandezza di ogni essere umano, anche quando si trova in una condizione di vulnerabilità? Il contributo dei cristiani, su questo punto, può contribuire a rianimare la vita della polis, in unità d’intenti con tutti coloro che hanno a cuore l’avvenire dell’umanità».

PER SAPERNE DI PIÙ

Nato a Saint-Étienne nel 1933, Paul Valadier è un grande conoscitore del pensiero di Nietzsche e della filosofia politica contemporanea. Tra i suoi libri pubblicati in Italia, ricordiamo “La Chiesa chiamata in giudizio. Cattolicesimo e società moderna” (Queriniana, pp. 264, € 16,50 ) e “Lo spirituale e la politica” (Lindau, pp. 96, € 12,50 ).

Per le Edizioni Dehoniane di Bologna, è in corso di traduzione il volume “La Beauté fait signe. Arts. Morale. Religion”.