Ancora vivi

Un film sulla vita che parla della morte: è “Still Life” il secondo film del produttore e regista Uberto Pasolini (un italiano che vive e lavora di più di trent’anni in Gran Bretagna, si deve a lui il successo di un film come “Full Monty”) che ha sorpreso critica e pubblico conquistandosi il premio per la miglior regia nella sezione “Orizzonti” alla Mostra del Cinema di Venezia del 2013. Eddie Marsan interpreta Jon May, un impiegato del Comune di Londra incaricato di organizzare i funerali delle persone morte in solitudine e ricercare eventuali parenti, amici o congiunti disposti a partecipare alla cerimonia. Non ci riesce quasi mai e così è proprio lui, John, a partecipare, da solo, alle esequie di quelli che sono diventati ormai i suoi defunti: sceglie una musica di accompagnamento che pensa sarebbe piaciuta al defunto e, a volte, scrive lui stesso un piccolo sermone che il sacerdote legge durante la cerimonia. Dati i tempi di crisi, però, il settore viene riorganizzato e il nuovo, giovane e supponente funzionario, decide che il lavoro di John non sia più necessario. John però riesce ad ottenere, anche se in forma privata, di seguire un ultimo caso che gli sta particolarmente a cuore. Un film sulla vita, dicevamo e non sulla morte: lo ha sostenuto il suo autore in molte interviste e anche davanti al pubblico del Cinema Studio Capitol a Bergamo dove, qualche sera fa, ha presentato il film. In effetti più che sulla morte (nonostante, appunto si parli di defunti, di funerali, ecc.), il film pare incentrato sul tema dell’esorcizzazione della morte nella nostra società (intendiamo quella occidentale capitalistica o “post” che sia). L’autore ha spiegato di non aver inventato niente avendo seguito, lui che vive e lavora a Londra, il lavoro di questi addetti (hanno anche un congresso annuale), che, scrupolosi e attenti, entrano nelle case di chi è morto in solitudine – spesso sono i vicini che chiamano sentendo il cattivo odore che proviene dall’appartamento a fianco dentro al quale, magari, non sanno nemmeno chi abitava – e cercano di rintracciare alcuni indizi che indichino la presenza di qualche parente. John è tenace, paziente, scrupoloso come nella sua vita privata invero piuttosto grigia e solitaria, ma non disperata. Le sue ricerche sono segnate da una pietas che va al di là dello scrupolo professionale: eccede la forma per diventare sostanza. I “suoi” morti hanno diritto, anche se abbandonati da tutti, a volte anche dai parenti e dai figli («è stato un cattivo padre, non voglio venire al suo funerale, che cosa ne sa lei?», gli risponde uno degli interpellati), anche loro ad un decoroso servizio funebre. Lo spettatore che si accosterà a questo sorprendente e toccante film si accorgerà, che dal punto di vista narrativo è importante l’ultimo caso affrontato da John: un caso che gli cambierà (o, almeno, potrebbe) cambiargli la vita. Senza rivelare niente della trama diremo solo che, rintracciando Kelly (Joanne Froggatt, che gli appassionati della serie riconosceranno tra le interpreti di Downtown Abbey) la figlia di Billy Stoke, John scopre forse per la prima volta la vita: cioè l’amore. Una scoperta che è più di una rivelazione, una vera e propria, per quanto effimera, epifania. È qui, crediamo, si situi il nodo centrale del film, nel rapporto tra i vivi e i morti, proprio come quello raccontato da James Joyce nel racconto “I morti” (The Dead, nella raccolta “Gente di Dublino”), sui quali, alla fine, vivi o morti che siano, si deposita la neve a livellare con il suo candore quasi uno scambio di ruoli perché, come diceva il regista interpretato da Orson Welles nel film di Pier Paolo Pasolini “La ricotta”, a proposito della morte del povero “Stracci” una delle comparse del film: «Povero Stracci, morire era l’unico modo che aveva per dimostrarci che era vivo».