Torna il Boss

Il Boss è tornato e si affaccia al 2014 con High Hopes, grandi speranze: è questo il titolo del nuovo album rilasciato da Bruce Springsteen il 14 gennaio, che nelle ultime settimane ha fatto parlare di sé, dividendo i critici musicali.

“Stavo lavorando a un album con i nostri pezzi migliori dell’ultimo decennio, quando Tom Morello ha suggerito di aggiungere High Hopes alla scaletta del tour”. Così scrive Springsteen presentando la sua ultima fatica, nata dopo un felice tour in cui Tom Morello, chitarrista dei Rage Against The Machine e uno dei musicisti più in scena degli ultimi trent’anni, ha sostituito Stevie Van Zand. Una raccolta di cover, come lo è la stessa High Hopes degli Havalinas, e di brani che il Boss, secondo tradizione, chiude in un cassetto decidendo di inserire in nessuna track list, ripescandoli a volte durante i suoi tour con la E-Street Band. Ed ecco quindi una scaletta di 12 pezzi che forse i fan ricorderanno di aver già ascoltato, risuonano ancora le note dei compianti Danny Federici e Clarence Clemons, questa volta in toni differenti: perché la presenza di Morello è forte, non passa sicuramente inosservata e come dice Bruce “la sua chitarra è diventata la mia musa”. La vivacità di Tom affonda in 7 brani su 12, donando un sound più rock e duro, a tratti malinconico, sconvolgendo pezzi storici come The Ghost of Tom Joad , suonata fino ad allora in chiave acustica, e che in questo album appaiono così diversi, acquistando grinta e un taglio contemporaneo.

Forse non ha la pretesa di essere ricordato come uno dei suoi migliori album, eppure High Hopes, come tutti i dischi di Springsteen, racconta una storia. Il filo rosso che lega a sé i brani si può facilmente individuare, si legge tra le righe dei testi che il Boss propone. E’ la sua America, quella delle grandi contraddizioni, le note distorte e graffianti di Tom Morello sembrano essere lì per ricordarcelo. Bruce racconta ancora gli Stati Uniti spezzati dall’11 Settembre, che fanno fatica a rialzarsi e a riprendersi, caduti in un buco da cui si vede solo un cielo grigio autunnale, come recita Down In The Hole, brano ripescato dal tour di The Rising. Si narrano storie di gangsters e mafia, con Harry’s Place, quasi rievocando vicoli degni di Martin Scorsese, di paura e di malavita, e non manca l’amore con la simpatica Frankie fell in love dove il Boss fa dialogare raziocinio e poesia con le voci di Einstein e Shakespeare. E’ l’America alla ricerca della Terra Promessa, che invoca la sua spiritualità, ci si attacca quasi con disperazione in Heaven’s wall, il ritmo rock incrociato a toni gospel che spinge a sollevare le mani e ballare. E’ la sua terra, quella fatta di viaggiatori silenziosi che vagano per zone desolate, sconfitti dall’illusione del tempo come in Hunter of Invisible game, o della working class che corre per 500 miglia ogni giorno dormendo nei motel, ne parla Just Like Fire Would, cover dei The Saints.  American Skyn ci sbatte in faccia la realtà dei quartieri americani, perché non si dimentichi il ragazzo afroamericano ucciso con 41 colpi di pistola, colpevole di aver estratto il portafoglio e di abitare nella sua pelle americana.

Springsteen ripercorre gli ultimi dieci anni raccontando storie di uomini, fatti accaduti veramente dalla terribile capacità di far perdere il coraggio per affrontare il futuro.  Così sembra che Bruce canti quasi con rabbia High Hopes, si sente. La speranza che lui invoca non è un banale inno ottimistico ad affrontare la vita con coraggio, dimentichi delle difficoltà, piuttosto è un ultimo appiglio, la mossa finale di un uomo che sa che al giorno d’oggi tutto ha un prezzo e si paga per ogni cosa. Cerca disperatamente un riscatto, chiede forza e pace e la canzone suona come una preghiera lanciata a Dio, non per se stessi, piuttosto per i propri figli, per il futuro, ai quali si può solo lasciare l’amore, come spada da sfoderare contro il buio di questa terra, colma della bellezza di Dio (This Is Your Sword). Così la rabbia e la speranza scivolano fianco a fianco, facendosi largo tra quelle storie che “meritano una casa e di essere ascoltate”, scrive ancora il Boss, e lo si percepisce nelle note più delicate di The Wall, dove la giovane vita stroncata di un musicista durante la guerra del Vietnam è la cicatrice americana in bella vista su una pietra nera.

Chiude l’album un’altra cover, questa volta dai Suicide, la malinconica Dream Baby Dream, l’ultimo richiamo a non arrendersi. Dobbiamo continuare a sognare, ripete Bruce con insistenza, ancora una volta come una preghiera, sapendo che certe ferite non si possono rimarginare, ma ci dice di spalancare i cuori e di smettere di piangere. Forse solo così la speranza può risollevarci.