Quelli del “Foglio” dicono che bisogna andare a Marsiglia. Non per il pastis, non per il sapone, non per la bouillabaisse, ma per un prete. «Un prete così potentemente prete come padre Zanotti, così ardente e appassionato, così trascinatore, in Italia non riesco a trovarlo», scrive Langone, giornalista del quotidiano di Giuliano Ferrara. E cosa ha di particolare? Veste la talare «perchè indossarla significa essere immediatamente riconosciuti come operai di Dio, e subito interpellati per riparare anime». Mentre «andando in giro in borghese sei sicuro di una cosa: che non succederà niente». Lo scrive lo stesso Zanotti in un testo pubblicato recentemente da Mondadori: “I tiepidi vanno all’inferno”. Un libro, secondo Langone, che «dovrebbe essere portato nei seminari perché insegna a fare il prete». Padre Zanotti esorta il sacerdote a «non essere uno tra gli altri», a non mimetizzarsi. «Non lasciare che i fedeli ti diano del tu. E se lo fanno per lunga consuetudine con te, che premettano padre al tuo nome». Grazie anche a questo, scrivono sempre quelli del Foglio, Marsiglia è testimone di un miracolo. «Miracolo di una fede fiammeggiante che ha fatto tornare le pecore all’ovile con la predicazione (dal pulpito, l’ho visto su YouTube, fa impressione), la bellezza (candele vere, organo vero, confessionali veri), il fervore («solleva la mano per benedire le persone e le cose, credi nel potere dell’acqua santa, sii soprannaturale!») e l’estrema disponibilità: «chiesa sempre aperta e lui sempre pronto a confessare, a incontrare chiunque anche senza appuntamento, anche nei caffè e nelle case».
UN DISAGIO CHE INTERPELLA TUTTA LA CHIESA
L’articolo del Foglio è solo l’ultimo di una serie che provengono dal nutrito e agguerrito mondo dei tradizionalisti. Essi imputano al Vaticano II (alla sua ecclesiologia, in modo particolare) e al tempo moderno la crisi del sacerdozio la cui soluzione, secondo loro, passa attraversa la riproposizione di un modello che, a prescindere dall’idea di Chiesa che comporta, a noi pare dia risposte semplici – e semplificate – a problemi ben più complessi. È il riparo offerto, in tempo di incertezza, dalle identità forti e rigide che non si lasciano mettere in discussione. Non è difficile intravvedere questo modello anche dalle nostre parti, in alcuni preti, soprattutto quelli più giovani. In realtà, burnout, fine del regime di cristianità, marginalità crescente, fine del “ruolo”, recezione non armonica del Concilio, sono solo alcuni dei molti aspetti di un disagio dei preti che, benché non dialettizzato, interpella fortemente la Chiesa. Almeno su due aspetti fondamentali: il discernimento sulle modalità storiche con le quali il ministero sacerdotale possa vivere oggi nella Chiesa e nelle società odierne e i modi attraverso cui il ministero possa rappresentare una contraddizione per il tempo presente. Quello che è certo è ciò che afferma con lucidità Greshake: «Negli ultimi anni il tema del prete è diventato una specie di muro del pianto su cui battono il capo tanti sacerdoti, ma anche vescovi sconsolati e laici disorientati. Ci si lamenta della mancanza, sempre più palpabile, di sacerdoti e della scarsa disponibilità dei giovani a impegnarsi in questo ministero (o non forse nella forma in cui attualmente tale ministero viene esercitato?). Ma anche parecchi sacerdoti considerano oramai superato, non più sostenibile, un modo di vivere (da celibi, soli, privi di assistenza) e un modo di operare che li propone come manager responsabili di un numero sempre crescente di comunità e quali distributori di “servizi” con il compito di soddisfare i bisogni religiosi di fedeli sempre meno interessati».
COMINCIAMO A RAGIONARE?
Proprio perché la questione è complessa andrebbe discussa e ragionata insieme, come Chiesa, più a lungo di quanto non si faccia. Aprire luoghi di ascolto (anche della sofferenza di tanti preti), di confronto e di dialogo. Ciò che è in gioco è la forma della chiesa del futuro prossimo, quello non troppo lontano da noi. La mia convinzione è che il prete troverà la sua strada nella Chiesa di domani solo insieme ai laici. Non il prete da solo o il laico da solo, ma insieme, confrontandosi, collaborando, condividendo. In una diversità di carismi, ma su un piano di parità e complementarietà, uscendo dalle relazioni di potere che troppo spesso hanno prevalso, e prevalgono tutt’ora, nella Chiesa. Cominciando a sperimentare oggi quello che, probabilmente, saremo obbligati, per ragioni evidenti, a fare domani.
Parlo di tutto questo con un prete amico. Mi ascolta e alla fine mi dice: «Sai, ho passato gran parte della mia vita a rincorrere e attirare le persone per portarle a Gesù. Ora ho capito che l’unica cosa che veramente conta è rincorrere Gesù. Che attira le persone».
Quasi quasi lo dico a quelli del “Foglio”.