La scultura contemporanea è qualcosa di molto diverso da quello che siamo soliti aspettarci dalla scultura stessa. È un territorio vitale e aperto alle più diverse sperimentazioni e ibridazioni sia per quel che riguarda tecniche e materiali sia per quanto riguarda le tematiche su cui riflette. Con prepotenza sono la vita e la materia a farsi spazio anche nella scultura. Berlinde de Bruyckere è un’artista che, con il suo particolare modo di fare arte, ci pone con forza di fronte alla consistenza della materia e ad alcuni degli interrogativi che assillano la vita di ciascuno.
CRIPPLEWOOD
Se qualcuno ha avuto l’occasione di passeggiare quest’estate tra i padiglioni della Biennale di Venezia si sarà certamente imbattuto in quello belga. A farne da padrone, o meglio, ad invaderlo completamente, un grande albero, un enorme olmo sradicato dal terreno e lasciato cadere lì, sul pavimento, con tutta la sua gravità e la sua perduta e ritrovata imponenza.
Un ammasso maestoso. Tronchi e rami nodosi tra i quali si scorgono morbidi cuscini, stracci e coperte che da un lato proteggono e dall’altro legano questa massa così simile – in modo inquietante – ad un corpo mollemente abbandonato, gettato sul terreno. Rami intrecciati che subito richiamano ossa, nervi, muscoli di un corpo umano medicato e confortato dalle bende poste qua e là nel mucchio. Bende che ricordano le fasciature dei soldati in guerra viste nei dipinti, nelle fotografie, nei film, dal vero.
Un corpo gigante, con i suoi lividi, le sue ferite e le sue cicatrici. Un corpo quasi umano, in una sorta di metamorfosi da albero a uomo, ancora in divenire, non ancora completa. Indaga spesso, Berlinde, questi momenti di passaggio, dove la materia si trasforma in materia altra, dove il legno si trasforma in carne, dove la carne umana si trasforma in carne animale (come nei suoi precedenti lavori sul mito di Diana e Atteone), dove la fragilità diviene manifesta e tangibile. Un continuo alternarsi, qui e fuori dalla biennale, tra la forza e la vulnerabilità della carne, tra la sofferenza e la cura, tra l’abbandono e il conforto, tra la vita e la morte. Dicotomie e riflessioni da esse generate che sono alla base di ogni suo lavoro, come lei stessa ricorda: “La mia mente mi porta a parlare di figure che si tramutano in nuovi corpi. Ogni mio lavoro è compresenza di vita e di morte, eros e thanatos sono sempre presenti ma qui in più vi è il tema del prendersi cura, perché è il corpo della terra ad averne bisogno”.
LEGNO LACERATO
Un linguaggio fisico ed estremamente espressivo quello di quest’artista belga. Scava in profondità nelle onnipresenti e spesso compresenti esigenze e paure dell’uomo. La fragilità, il dolore e la violenza sono narrati attraverso forme estreme ma sempre legate alla possibilità di un cambiamento che è crescita e miglioramento.
Opere scultoree, plastiche, che traggono però ispirazione per lo più da quanto di più effimero ci possa essere: dalle parole, da racconti e narrazioni che siano essi brani di letteratura, storie del cinema o episodi mitologici. Anche qui la creazione è frutto di una collaborazione, che è un’amicizia prima di tutto, con lo scrittore africano premio Nobel J.M. Coetzee, da lei chiamato a firmare la curatela del padiglione, come naturale prosecuzione di un lavoro iniziato l’anno prima (All Flesh) dove le opere dell’artista hanno arricchito le parole dello scrittore e viceversa, senza mai diventare la didascalica e poco fertile descrizione l’uno dell’altra. Trovato il tronco per caso, ella ha scelto di chiamare quel suo “spirito affine” prima di iniziare l’opera e lui ha così creato per lei il racconto di un’anziana signora, in attesa delle cure degli infermieri.
Una riflessione a due voci sulla condizione umana, su quella particolare condizione umana che ci vede d’improvviso dipendenti e bisognosi dell’aiuto di altri, privati della possibilità di provvedere alla nostra stessa cura. Se ci si avvicina a questa opera, si scoprono rughe e tagli nella corteccia, ma spesso si è come bloccati, non si osa avvicinarsi alla sofferenza altrui, paralizzati dalla paura di visioni insostenibili. Una forza che così lo stesso Coetzee descrive: “Ho sempre ammirato l’opera di Berlinde De Bruyckere e, soprattutto, ne sono stato colpito in un modo spesso a me oscuro, ma non avrei voluto fosse altrimenti. Le sue sculture esplorano la vita e la morte – morte nella vita, vita nella morte, vita prima della vita, morte prima della morte – nel modo più intimo e disturbante. Illuminano, ma la luce è tanto buia quanto profonda”.