Preti che lasciano

Fanno parlare, in questi giorni, alcuni casi di sacerdoti della nostra diocesi che hanno lasciato il loro ministero. Vorremmo tornare a parlarne anche in futuro, con calma e con un gran desiderio di vedere il più possibile l’insieme del problema. Vorremmo, qui e nei limiti di un editoriale del nostro settimanale, buttare lì alcune idee, magari con la speranza che qualche nostro lettore ci dica la sua.

SOLITUDINE

Prima sensazione. I preti, molti preti, continuano a essere soli e i drammi di cui si parla sono in buona parte la conseguenza diretta di quella solitudine. Pensiamo al caso di un prete giovane che deve tenersi la casa, farsi da mangiare, lavarsi i panni. Niente di strano, per l’amor di Dio, ma strano perché a quella solitudine si aggiunge quella affettiva e il tutto diventa esplosivo se il lavoro pastorale non è soddisfacente. Non si vive di delusioni e non si vive di solitudine. Quel prete, già a disagio con se stesso, è poi costretto a presentarsi come personaggio esemplare, che deve educare, formare, predicare, pregare. Lo stacco fra la fatica della banale vita quotidiana e gli altissimi doveri della missione è troppo forte e diventa facilmente pericoloso. Si sa che diverse forme di parziale o totale vita comune con altri preti sono in atto in molte parrocchie. Ma non è il modo normale di vivere la propria vita di preti per tutti. Non c’è ancora, nella nostra diocesi, una cultura ecclesiastica della vita comune.

COMUNITÀ PER MODO DI DIRE

Seconda sensazione. Spesso le comunità cristiane sono comunità ancora in parte tra virgolette. Cioè non sono vere comunità. Perché, in effetti, anche se i preti fanno comunità fra di loro, questo non basta per dire che quella parrocchia è comunità. La comunità dei preti non è la comunità parrocchiale. Ci sono i laici, i collaboratori, gli amici. Questi spesso sono fuori gioco e entrano di sbieco nella vita dei preti. È qui che appare nettamente come la solitudine dei preti è un retaggio di lunghissimo respiro, una storia che si è costruita nei secoli. La stile delle comunità cristiane non si reinventa facilmente e il prete è chiamato a passare da monaco solitario, a membro di un monastero di preti, a una comunità vera e propria. Altrimenti le molte cose che si tentano rischiano di essere soltanto toppe che aggiustano, non vestiti nuovi. “E la toppa nuova porta via il vecchio, e lo strappo si fa maggiore”, direbbe il vangelo.

GRANDI CLAMORI

Terza sensazione. Le partenze dolorose, alcune almeno, sono spesso fragorose, uno sbattere la porta, dove chi va si sente in dovere di accusare il mondo intero e dintorni. Il prete solo si comporta da solitario anche quando se ne va. L’eroe che conduce il gregge quando è nell’ovile fa l’eroe quando lo lascia. Una madre di famiglia che mi parla di queste dolorose notizie è piuttosto dura: “Quante volte viene la voglia di piantar lì marito e figli e di andarsene. Ma si resta. Non siamo più degli adolescenti e le responsabilità che ci siamo assunti e la vita che abbiamo costruito non sono soltanto un peso. Si resta anche se pesa”.

Moralismo? Forse. Ma anche accusare tutti è moralismo. Si tratta di decidere quale moralismo scegliere. Anche se mi viene il dubbio che il senso della responsabilità, la capacità di accettare una situazione che non soddisfa, lo spirito di sacrificio che questo comporta non è solo moralismo, ma morale. Il che è un’altra cosa.