I Papi Santi

Anche per quanto riguarda i papi, la categoria della “santità” costituisce un contenitore ampio, in cui possono ricadere casi assai diversi: si va dai primi pontefici-martiri a Pio V, il papa della «crociata di Lepanto»; dalla devozione a Pio IX, il pontefice entrato in rotta di collisione con il Risorgimento, allo slogan «Santo subito!» scandito l’8 aprile 2005, durante i funerali di Giovanni Paolo II. «La santità dei papi nella storia» è anche il titolo di un ciclo di conferenze promosso dalla Fondazione Papa Giovanni XXIII e dalla diocesi di Bergamo come occasione di approfondimento culturale in vista della canonizzazione di Angelo Giuseppe Roncalli, in programma il 27 aprile insieme a quella di Karol Wojtyla (questa sera alle 18, nella sede della fondazione – a Bergamo, in via Arena 26 -, il direttore don Ezio Bolis parlerà appunto della «santità di Giovanni XXIII»). La precedente relazione era stata invece tenuta da Roberto Rusconi, docente di Storia del cristianesimo e delle Chiese presso l’Università di Roma Tre, nonché autore dell’ampio volume «Santo Padre. La santità del Papa da San Pietro a Giovanni Paolo II» (Viella Libreria Editrice, pp. 704, 48 euro).

«L’idea iniziale di questo libro – racconta Rusconi – risale addirittura al Giubileo del 2000, e il testo doveva essere incentrato soprattutto sul pontificato di Eugenio Pacelli. Per quelli della mia generazione – io sono nato nel 1946 – il “bianco padre” per definizione era Pio XII: dopo di lui, nessuno è stato più papa “allo stesso modo”, ha assunto lo stesso aspetto ieratico. Tuttavia, proseguendo nella scrittura del volume, ho intuito sempre più chiaramente che occorreva svolgere un lavoro a monte: per capire le vicende relative al papato nell’età moderna e contemporanea era necessario tornare indietro nel tempo, fino ai primi secoli del cristianesimo».

Azzardiamo un’ipotesi: i diversi modi in cui è stata intesa la “santità dei papi” corrispondono ad altrettante stagioni della storia della Chiesa e della spiritualità cattolica?
«In realtà, “Santo Padre” è proprio un libro di storia della Chiesa. In queste pagine ho preso in esame – si noti -, non la santità dei singoli papi, ma la loro “fama di santità”: in altri termini, i modi in cui le loro figure sono state percepite e le situazioni storiche che hanno influito sui loro processi di beatificazione o canonizzazione. Come lei accennava, la rilevanza e i tratti dell’immagine del papa cambiano moltissimo, nelle diverse epoche. Nell’età moderna, ad esempio, non si sentiva il “bisogno” di papi santi: bastavano i “sovrani pontefici”, alla guida dello Stato della Chiesa».

L’eccezione è costituita da Pio V, il papa che bandì la “crociata di Lepanto” contro i Turchi.
«Ma è comunque significativo che il suo processo di canonizzazione abbia richiesto quasi un secolo e mezzo, giungendo al termine nel 1712, in un periodo in cui era percepita di nuovo come un pericolo la presenza ottomana: nel 1683, Vienna era stata liberata dall’assedio turco ad opera di una coalizione cristiana».

Lei racconta che, in occasione della canonizzazione di Pio V, la vittoriosa battaglia navale di Lepanto del 1571 fu rievocata con un grande spettacolo nel centro di Roma.
«Sì, le navi “cristiane” e quelle “ottomane” si affrontarono nuovamente in piazza Navona, appositamente allagata e trasformata in un bacino artificiale».

Un modo di celebrare un po’ lontano dalla nostra sensibilità, forse. Ma facciamo un passo indietro, tornando al medioevo: anche in questo periodo storico, solo un papa fu considerato santo al termine di un processo canonico.
«Toccò a Celestino V, considerato il papa “del gran rifiuto”, dato che si era dimesso nel 1294, solo pochi mesi dopo la sua elezione al soglio pontificio. In quell’epoca, però, la questione si poneva diversamente rispetto alla tarda antichità e ai primi secoli del medioevo: per molto tempo, l’atto del riconoscimento della santità era stato una prerogativa dei vescovi, secondo un principio ancora in auge nella Chiesa ortodossa; in Occidente, solo nel XII secolo il papato incominciò a rivendicare l’esclusiva della canonizzazioni, e tale regola fu adottata stabilmente dal 1234. Contemporaneamente, però, si affermava anche la necessità di un vero e proprio processo volto a stabilire l’effettiva santità di una persona; e, come è noto, molti processi hanno un andamento imprevedibile…»

Nel caso di Celestino V, il “povero cristiano” di un celebre dramma di Ignazio Silone, come procedette la causa canonica?
«Per la canonizzazione di Celestino insistette molto la monarchia francese, che storicamente era stata avversa al successore di lui, Bonifacio VIII. All’inizio del Trecento, la curia papale si era trasferita ad Avignone, che formalmente era un territorio della Chiesa, ma era in effetti sotto la tutela dei re di Francia. Clemente V, che pure era un papa francese, si accorse però che la canonizzazione di Celestino comportava dei rischi: a un certo punto, da Parigi si pretendeva addirittura che egli fosse riconosciuto come “martire”, in quanto sarebbe stato assassinato da Bonifacio VIII (una diceria infondata dal punto di vista storico). Proprio per evitare di accreditare questa leggenda, Celestino non fu canonizzato in quanto papa, ma in quanto Pietro del Morrone, e cioè come monaco ed eremita, in riferimento a un periodo precedente della sua vita. Questo esempio ci fa capire come nel riconoscimento della santità di un pontefice giochino un ruolo anche delle considerazioni di ordine “politico”».

Come è cambiata poi, tra l’Otto e il Novecento, la questione della “santità dei papi”?
«Con il venir meno del potere temporale della Chiesa e della figura del papa-re, andò evidenziandosi la questione della santità personale dei singoli pontefici. Le cause di beatificazione-canonizzazione si sono infittite: le eccezioni, semmai, sono costituite da Leone XIII (papa dal 1878 al 1903), da Benedetto XV (1914-1922) e da Pio XI (1922-1939). In ogni caso, a partire da Pio IX (1846-1878) i fedeli hanno sentito sempre più “vicina” la figura del papa: egli fu addirittura il primo pontefice ritratto in fotografia».

Leone XIII si lasciò filmare, e una giornata della vita di Pio XII costituì il tema di un famoso documentario del 1942, Pastor Angelicus.
«Ecco, sulla realizzazione di quel documentario posso riportare un episodio, molto indicativo di una crescente “dimensione mediatica” del papato. Tra gli sceneggiatori di Pastor Angelicus vi era – incredibile ma vero – il laicissimo Ennio Flaiano. Durante le riprese, papa Pacelli spesso non “teneva i tempi”. A un certo punto, avrebbe dovuto percorrere un vialetto, nei giardini vaticani, leggendo il breviario. Flaiano poggiò per terra un sassolino un po’ diverso dagli altri e si rivolse a Pacelli dicendogli: “Santità, quando la sacra pantofola toccherà questo sasso, lei si dovrà arrestare”».

Gli altri membri della troupe dovevano sentirsi sgomenti.
«Certamente: chi avrebbe osato parlare al papa in quel modo? Pio XII, invece, si attenne fedelmente alla raccomandazione che gli era stata fatta, a conferma della grande consapevolezza che egli aveva del suo “ruolo pubblico”. Per inciso: sotto il suo pontificato, al personale dei giardini vaticani era fatto divieto di rivolgergli la parola. Possiamo immaginare la sorpresa di queste persone quando il successore di Pacelli – Giovanni XXIII – prese a intrattenersi volentieri con loro, durante le sue passeggiate».

Anche per quanto riguarda Giovanni XXIII, non vi è il rischio che un eccesso di “note a margine”, di commenti a posteriori, finisca per rendere difficilmente leggibili la sua figura e il suo messaggio?
«Il pericolo c’è, indubbiamente. Anni fa, presso l’università di Roma Tre, si era tenuto un seminario a cui aveva preso parte anche lo storico Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Il titolo era: “I santi si consumano”, a indicare appunto il rischio che un eccesso di enfasi devozionale, una tendenza all’“ipercelebrazione” faccia perdere di vista la fisionomia reale della persona che viene innalzata alla gloria degli altari».

Che cosa si dovrebbe fare per scongiurare questa deriva, nel caso di papa Giovanni?
«Credo che un aiuto in questo senso possa venire anche dai gesti dell’attuale pontefice. Come si sa, Bergoglio ha accelerato i tempi del processo di Roncalli, in maniera tale che la sua canonizzazione coincidesse con quella di Karol Wojtyla. Si è anche saltata la fase del riconoscimento ufficiale di un miracolo avvenuto successivamente alla beatificazione, miracolo che pure è avvenuto – mi ha spiegato un funzionario della Congregazione per le Cause dei Santi -, ma il cui accertamento ufficiale da parte di una commissione medica avrebbe richiesto ulteriore tempo. Inevitabilmente, la prossima canonizzazione di papa Giovanni riporta l’attenzione sull’eredità del Concilio da lui indetto, il Vaticano II: credo che risulterà molto interessante, in questa prospettiva, l’omelia che terrà in quell’occasione papa Francesco. Ma vorrei tornare direttamente alla questione che lei poneva, di come convenga prepararsi alla canonizzazione di Roncalli. In questo caso, ovviamente, parlo a titolo personale, più che da storico: il vero problema, a mio avviso, è di non guardare alla figura di Giovanni XXIII da una prospettiva astrattamente agiografica, limitandosi a vedere in lui il “papa buono”, dai tratti rugiadosi».

In positivo, invece, che cosa andrebbe valorizzato?
«Bisognerebbe riportare al centro l’autentico messaggio del pontificato giovanneo, ovvero l’idea che la Chiesa sia chiamata a osservare e a interpretare i “segni dei tempi”. La formazione di Roncalli, dal punto di vista religioso, era stata assolutamente tradizionale, e divenuto papa egli non prese affatto le distanze da essa; aveva però una grande capacità di ascolto, di comprensione dei fatti e delle situazioni. Questa sensibilità fu alla base delle sue maggiori encicliche, la Mater et Magistra e la Pacem in Terris, oltre che del grande gesto dell’indizione del Concilio. In questo senso, l’atteggiamento mentale e spirituale di Giovanni XXII è ben riassunto da una battuta attribuitagli da un giornalista francese, benché l’episodio non sia certificato da altre fonti. Riferendosi alla situazione della Chiesa in quel momento, Roncalli avrebbe detto: “Bisogna aprire le finestre, per far cambiare l’aria”».