Preti e giovedì santo

Giovedì santo. Sono in duomo con centinaia di confratelli sacerdoti a concelebrare con il Vescovo Francesco per ringraziare il Signore del dono del sacerdozio fatto a me, a tutti noi, e alla Chiesa intera. Infatti c’è anche un buon numero di fedeli laici a ringraziare con noi, perché il nostro ministero è stato istituito dal Signore proprio per loro.

Per me la cosa si ripete da più di cinquant’anni e, tutto sommato, sia pure con qualche vistoso cerotto e qualche zeppa di sostegno nell’anima, sono ancora qui, libero e convinto, a ripetere il mio grazie.

“I PRETI HANNO BUONTEMPO”

Dicono che noi preti abbiamo “buontempo”. Lo dicono quelli che non ci sono amici, e si capisce; ma lo dicono non amichevolmente anche tanti nostri laici, fedeli senz’altro, ma anche irresistibilmente egregi, cioè liberi da ogni intruppamento clericale. E noi preti dobbiamo dirlo, almeno io lo dico, che, al di là delle loro intenzioni, quelli che ci danno del buontempone hanno ragione. Noi preti “abbiamo buontempo”; detto meglio, siamo fortunati, oserei quasi dire felici e ci meravigliamo che siano così in calo quelli che desiderano farsi preti.

Durante la Messa crismale guardo sempre la schiera dei miei confratelli, di cui sono contento (molto) di far parte. La maggioranza è fatta ormai di anziani e di vecchi come me. Siamo, fisicamente, sempre più brutti e sgarrupati, ma vedo ancora in tutti tracce persistenti della passata gioventù. Poi c’è il gruppo di mezzo, quelli che, lo si vede bene, sono nel pieno del loro vigore e del loro potere (nel senso del poter fare, programmare e decidere). Poi ci sono i giovani, nel fiore degli anni, sempre meno numerosi purtroppo. Quelli fanno un po’ gruppo a parte: si vede che non sono ancora in possesso di un potere pieno e quindi hanno l’aria evidente di non portare una piena responsabilità, ma nello stesso tempo aspettano che venga il loro turno, alcuni con una punta visibile di impazienza, altri con la sicurezza di chi attende qualcosa che non può non arrivare.

Durante la concelebrazione, mi par di vedere (e son convinto di veder bene) che, chi più chi meno, tutti vogliono bene al Signore e tutti hanno sotto il naso l’odore delle loro pecore, senza esserne infastiditi, anzi molto spesso con evidente piacere.

CHI “CI HA LASCIATO” E CHI HA LASCIATO

Ogni anno vengono ricordati i confratelli che “ci hanno lasciati” per andare a partecipare alla liturgia del cielo. È un momento toccante di ricordo e, almeno per noi più vecchi, di trepidante previsione.

E ogni anno però, nelle parole del Vescovo, che pensa a tutti noi, o nelle preghiere di intercessione, si ricordano anche coloro che “hanno lasciato”. Nel tono e nelle parole nessun accenno a tradimenti o a vigliaccherie. Siamo tutti d’accordo con Geremia che diceva: «Il cuore dell’uomo chi lo può conoscere?» e chi dunque lo può giudicare?

Il tocco di quel tasto, ad ogni giovedì santo, mi porta allora a guardare al nostro gruppo e alla vita quotidiana di ognuno, in particolare alla mia, con uno sguardo meno superficiale di quello con cui si è portati a guardare le persone in una riunione di massa. E allora vedo, certo, le gioie e le soddisfazioni di ogni sacerdote, che sono tante, da quelle straordinarie a quelle di ogni giorno, di tutti i giorni, che non sono le più piccole. Il trattare con le tue mani le cose di Dio e Dio stesso; l’entrare e l’incidere nel cuore di tante persone perché cerchino una strada, la Strada, la trovino e la se-guano; il porgere quella Parola che non è tua e vedi che fa nascere e rinascere speranza e buona volontà; l’accompagnare uomini e donne verso il compiersi di queste speranze.

LE GRANDI, PESANTI FATICHE

Ma poi, immancabilmente, vedo le fatiche e le sofferenze, a volte interminabili, per risultati irrisori, malgrado il tanto lavoro profuso; e quindi le delusioni. Ma poi le amarezze per le incomprensioni, le resistenze ostinate, le ottusità anche di tanti “nostri” per tutto quello che cerchi di fare per il bene del Vangelo. Vedo quante volte le tre tentazioni di Gesù si fanno sentire anche per ognuno di noi preti (quella del miracolismo per la pancia piena, quella della spettacolarità delle iniziative e quella dell’inchinarti e del pagare il pizzo al signorotto di turno) per avere risultati rapidi e vistosi. Vedo i tanti conforti, anche bene intenzionati, ma alla fin fine fasulli e ingannevoli, che cerchiamo o che ci vengono offerti anche senza cercarli. Vedi i tanti momenti, a volte anche molto prolungati del silenzio o dell’assenza di Dio stesso.

A quel punto, lì alla Messa crismale, pensando alla mia vita e guardando i miei confratelli con i quali mi trovo bene, sia lì tutti insieme, sia nei nostri gruppi vicariali o amicali, mi vien da dire che noi “abbiamo davvero buon tempo”, ma a caro, carissimo prezzo. Certo, in fondo, è quello di cui Gesù ha preavvisato tutti quelli (preti o laici) che cercano la realizzazione felice della loro vita seguendo lui. Ma un conto è saperlo e un conto è esserci dentro.

IL MERAVIGLIOSO MINESTRONE

Alla benedizione finale il Vescovo ci dice che «il nostro aiuto viene dal Signore». Ed è vero. Ma ancora una volta mi vedo e vedo i miei confratelli a colloquio con il Signore nei momenti prolungati di preghiera, spesso di lode prorompente, ma a volte, non raramente, di preghiera quasi disperata come quella che durante la passione ha portato Gesù stesso a gridare: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

L’aiuto ti viene, a me è venuto, dal Signore e… da tanti suoi angeli. Non tanto da quei signori che sanno tutto sulla condizione del prete, conoscono fino alla virgola le statistiche sulla valutazione della loro maturità, ne conoscono le cause e han lì belli e pronti i rimedi psicologici e anche ecclesiologici.

A me l’aiuto è venuto, ad esempio, da Madame Locatelli, un’emigrante bergamasca in Svizzera, abbandonata con tre figlie dal marito, e che lei ha riaccolto quando è tornato ammalato dopo sette anni. Era una collaboratrice della missione. Quando andavo a trovarla e vedeva in me segni di stanchezza o di sfiducia, offrendomi il caffè, mi diceva: «Forza, don Giacomo! Metta tutto nella comunione dei santi». Sempre così, con mia grande meraviglia. Quando fu sul letto di morte, le chiesi: «Come va, signora?». «Soffro tanto, ma metto tutto nella comunione dei santi». Non potevo attendere più oltre. «Mi dica finalmente che cosa vuol dire?». «Lei, un prete, non sa cos’è la comunione dei santi?». «Me lo dica lei». «È come un calderone, di quelli che avevamo una volta nelle nostre case, pieno di minestrone. La parte principale l’ha messa il Signore. Noi, se vogliamo, ci mettiamo chi un fagiolo, chi un pisello, una foglia di rosmarino, un chicco di riso… Alla fine ce n’è per tutti».

DOMANDE DI FRONTE AGLI ABBANDONI RECENTI

In questo giovedì santo, mi domando con sofferenza che cosa è mancato, che cosa è stato lasciato mancare, che cosa non è stato offerto ai nostri confratelli che nelle scorse settimane hanno tolto le mani dall’aratro. Che cosa è passato nel loro cuore nei lunghi giorni e nelle lunghe notti che hanno preceduto la loro decisione? Che cosa non hanno potuto, o saputo, o voluto dire al Signore, alla Madonna e a qualcuno che li potesse aiutare veramente?

La conferma degli impegni ecclesiali che il Vescovo chiede ogni anno alla Messa crismale, ogni volta, anche stavolta, per me è condita di pensieri come questi. E ogni volta mi domando che cosa passa nella testa e nel cuore dei miei confratelli che son lì con me a concelebrare; che cosa è passato nelle Messe crismali degli anni scorsi nel cuore dei confratelli che hanno lasciato.

E i fedeli che sono lì che cosa pensano? E, soprattutto, che cosa vede il Signore che non guarda alla faccia, ma al cuore?