Il lato oscuro

«Ci sono politici con ottime intenzioni che cercano di migliorare il mondo per noi. Possono farlo senza sporcarsi le mani?». Michael Dobbs nel suo «House of Cards», appena uscito in Italia per Fazi, dice di no. Il suo thriller politico è un longseller: scritto (prima stesura) 27 anni fa, continua (rivisto e corretto) a essere sulla cresta dell’onda. Ne hanno tratto due serie televisive, una della Bbc negli anni ’90, un’altra americana con uno strepitoso Kevin Spacey nella parte del protagonista Francis Underwood, o meglio “F. U.” Questa serie da un paio di settimane va in onda anche in Italia, su Sky Atlantic, ed è sulla bocca di tutti. Tra i fan che non si perdono un episodio c’è anche il presidente Obama.

Il suo segreto? Racconta il lato oscuro della politica, in modo estremamente attuale. Quanti politici (anche nostrani) potremmo ritrovare nel cinico e spietato F.U.? «Nel libro – spiega ancora Dobbs -si chiama Francis Urquhart e anche nella serie Bbc si chiama così, ma agli americani non suonava bene Urquhart, così è diventato Frank o Francis Underwood. Ma alla radice di entrambi i cognomi c’è il suono “F.U.” E in Inglese “F.U.” è un qualcosa di davvero sgarbato, scortese. Così “F.U.” è diventato non solo il suo nome, ma anche la sua vera natura. E chiunque sappia cosa voglia davvero dire “F.U.” capisce con che personaggio ha a che fare». Molto in fondo c’è «Il principe» di Machiavelli ma anche un po’ di Hobbes (Bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti) e l’idea di una politica che è anche idealismo, ma che nella vita di tutti i giorni «è costretta» a diventare ben altro.

Dobbs ha vissuto a lungo la politica vera: è stato consigliere di Margaret Thatcher, ma non ha avuto con lei un rapporto idilliaco. La Lady di Ferro lo cacciò «per una divergenza di opinioni». Il libro, come racconta lui stesso, è nato da una scommessa con la moglie ma anche dalla sua rabbia e dalla depressione per essere stato estromesso. “House of cards” gli ha permesso di avviare una brillante carriera come scrittore, ma Dobbs non ha smesso comunque con la politica attiva e fa ancora parte della Camera dei Lords. Piccola nota a margine: la prima versione del romanzo si concludeva con la morte di F.U. Dato il successo di questo perfido briccone, però, Dobbs ha cambiato marcia per poter scrivere il seguito. In questa versione all’inizio di ogni capitolo Frank ci regala perle come «La politica richiede sacrificio. Il sacrificio degli altri ovviamente». Oppure «Politica? Guerra? Non c’è alcuna distinzione» e «La verità è come un buon vino, spesso la trovi infilata nell’angolo più buio dello scantinato». Cinico. Insopportabile. E proprio per questo, spiega Dobbs con invincibile ironia, «irresistibile».

Quanto della sua esperienza politica è confluito nel romanzo?
«Nella politica il sacrificio di sé e l’ideale e la nobiltà dell’azione rappresentano soltanto una piccola parte. Sicuramente almeno il 90 per cento di quello che trova nel libro viene dall’esperienza vissuta, da quello che ho sentito, osservato come testimone, oppure sperimentato direttamente. Ovviamente non ho mai assistito a una scena come quella del primo ministro che uccide una giornalista scaraventandola giù dal tetto di un palazzo, benché abbia forse desiderato qualche volta consigliarlo in questo senso».

Come è nato questo libro? L’ha ispirata qualche particolare situazione che ha vissuto?
«Diciamo che potrebbero esserci due episodi che mi hanno fatto venire voglia di scrivere questo libro: il primo è stato un brutto litigio con Margareth Thatcher, dal quale sono uscito bastonato, e il secondo in cui mi sono ritrovato a litigare con mia moglie perché io continuavo a lamentarmi con lei di un libro di politica che trovavo orrido e lei mi ha redarguito dicendomi che dovevo smettere di criticare finché non avessi dimostrato di saper fare di meglio».

Nel libro è stretto il legame tra politica, ambizione e corruzione. Secondo lei sono questi gli elementi che l’hanno reso un classico del thriller politico?
«Non sono solo queste le qualità legate all’agire politico, c’è ovviamente anche l’idealismo, come si vede di più nel romanzo di Charles Dickens “Le due città”. Ma alla gente alla fine piace di più il lato oscuro delle cose, è molto più affascinante la malvagità, nella quale, magari senza ammetterlo, vogliamo un pochino riconoscerci, mentre un personaggio positivo, solare, sarebbe alla fine fin troppo noioso. Quello di Frank, ambiguo e cattivo, è molto più affascinante, come dimostra anche il successo della serie televisiva».

Si è ispirato anche al “Principe” di Machiavelli nel tratteggiare il suo protagonista?
«Sì, ma solo fino a un certo punto, perché bisogna ricordare che “Il principe” di Machiavelli è stato pubblicato soltanto postumo, e lo stesso Machiavelli benché predicasse tanto bene non era così bravo a mettere in pratica le idee che propugnava. Alla fine si è rivelato un cattivo politico, non è riuscito a mettere in pratica le sue idee così ciniche. Il mio personaggio invece è bravissimo a metterle tutte in atto: non risparmia nulla».

Cosa pensa della serie americana tratta dal suo romanzo e quali sono le differenze principali della trasposizione televisiva?
«Diciamo che personaggi, episodi e situazioni originali risalgono a 27 anni fa, periodo ambientazione e situazioni completamente diverse. La serie prende spunto da quelle situazioni ma le trasforma per arrivare a qualcosa di molto più attuale, riuscendo a creare una versione estremamente brillante, traducendo questi elementi e trasformandoli in un contesto completamente nuovo e aderente alla realtà odierna. E’ stato necessario inventare nuove storie, una nuova trama. Grazie ad esse, che non appartengono a una sola realtà ma permettono a un pubblico molto ampio di identificarsi, la serie drammatica è arrivata a essere un grande successo perfino in Cina».