Si vota così

Quando ero ragazzo il giorno delle elezioni L’Eco di Bergamo dedicava l’ultima pagina per indicare, concretamente, su quale partito, nel segreto dell’urna, doveva essere messa la croce. Si vota cosi, era il richiamo esplicito e un sostegno dichiarato alla Democrazia Cristiana, il partito di riferimento di molta parte dei cattolici del nostro Paese. Quel partito e quel mondo, nato sulle radici della Repubblica costruita tra il 1946 e il 1948, è stato travolto e, piaccia o meno, definitivamente sepolto. Tangentopoli e Mani Pulite, la caduta del Muro e la fine dei partiti tradizionali (vi ricordate? Erano i tempi del PSDI di Saragat Longo, il PRI di La Malfa e Spadolini, il PLI di Zanone e Altissimo) hanno contribuito, tra varie vicende, a scomporre e frantumare l’unità politica dei cattolici, dispersi, dopo allora, in rivoli sempre meno consistenti e significativi.
Ho sempre creduto che l’approdo al pluralismo politico-partitico dei cattolici sia un fatto evidente e, se ben inteso e praticato, un valore. Almeno per due aspetti. Per la Chiesa stessa, anzitutto. Libera dal sospetto di configurarsi quale parte tra le parti politiche. Libera di narrare il vangelo agli uomini del nostro tempo senza condizionamenti o pretese. E poi per la responsabilizzazione dei laici cattolici stimolati a non contentarsi di etichette nominativamente cristiane o di astratte proclamazioni di valore, ma protesi a farsi valere sul terreno proprio della politica attraverso un loro contributo di pensiero e di azione originale e creativo. Lo ricordava con lucidità Giuseppe Lazzati: «È facile per noi cattolici chiamare cristiana la politica per atti di ossequio formale da essa resi alla religione: ma purtroppo sotto il velo di questa apparenza può vivere un ordinamento politico che, per la sua difformità dal fine naturale proprio della politica stessa, è grave ostacolo a che la parola di Dio corra nel mondo a salvezza di molti» (“La spiritualità dell’uomo politico”, in “Pensare politicamente II”, p. 121)

LA TENTAZIONE DELLA SOSTITUZIONE

In realtà non è andata cosi. Dopo la fine dell’esperienza democristiana, la gerarchia ecclesiastica ha tentato di svolgere un proprio ruolo di interlocuzione politica e istituzionale a trecentosessanta gradi, con “invasione” di campo dagli esiti controversi e che hanno generato, tra l’altro, rinascite di soffioni anticlericali. I cattolici diversamente impegnati a costruire la città di tutti si sono sentiti spesso spiazzati da prese di posizioni ufficiali che chiamavano a raccolta i credenti in vista di battaglie identitarie. Si sono visti togliere la responsabilità di un’azione politica fatta di discernimento e di impegno. Non solo. Il riconoscimento di un doveroso approccio “plurale” dei cristiani, oltre a frantumare l’insostenibile pretesa di un’unica e omogenea traduzione culturale dell’impegno e della rappresentanza politica, ha posto la necessità di elaborare un corretto metodo politico. Che, a mio avviso, deve aver chiaro, in modo inequivocabile, il valore della laicità della politica e il senso della mediazione. Fare politica – sapere e prassi che ha leggi e valori specifici che non possono venire posti a lato – è possibile partendo da “valori” (parola magica negli anni che abbiamo lasciato alle spalle) solo se pratica buone mediazioni, che siano incarnazione dei principi o dei valori attraverso l’azione. In caso contrario si condanna o al tradimento dei valori oppure all’inefficacia politica. Ancora una volta, resta attualissima la lezione di Giuseppe Lazzati: per agire politicamente occorre “pensare politicamente”. La legittima formulazione dei principi da parte dei Pastori non può sostituire il discernimento dei credenti che, in quanto cittadini tra cittadini, sono chiamati a tradurre questi principi, nella città di tutti, in formule giuridico-politiche, tenendo conto di una serie di fattori contingenti e nel rispetto della dialettica democratica con soggetti di diversa ispirazione.

NÉ SILENZIO NÉ OMISSIONI

Certo, il pluralismo – inevitabile – dei cattolici non porta al silenzio. Ne alle omissioni. Come quelle, ad esempio, sullo stato di salute della democrazia del nostro paese, ad esempio. È sotto gli occhi di tutti che da molto tempo la politica in Italia è gravemente inferma, né si vedono segni di miglioramento. La crisi del vecchio modo di fare politica, pragmatico e senz’anima, che ha fatto morire la Prima Repubblica, non è stata ancora risolta. Si è diffusa, così, nel Paese – e anche nelle nostre comunità cristiane – una cultura “anti-politica”, che si manifesta soprattutto nel crescente assenteismo e nel disinteresse dei cittadini, mentre si accentua la deriva “populista” che tende a scavalcare il Parlamento e gli altri istituti di mediazione politica, propri della democrazia rappresentativa, per appellarsi direttamente al popolo. O sul dilagare di una cultura – quella neoliberista – che mette sempre più in difficoltà le reti di protezione sociale e che fa ricadere sui più deboli il peso maggiore di riforme destinate a premiare i più forti. Sarebbe importante che le nostre comunità cristiane, i preti in particolare, si interrogassero sulle parole dette e su quelle non dette, sulle omissioni e sulle paure che hanno impedito, in nome di un legittimo pluralismo, di parlare e, in nome del vangelo e della passione per l’umano, di favorire la cura della città da parte dei cristiani delle nostre parrocchie.

QUELLO CHE CONTA

«Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Esser liberi, avere in mano sacramenti, Camera, Senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto di essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Aver la chiesa vuota. Vedersela vuotare ogni giorno di più. Saper che presto sarà finita per la fede dei poveri. Non ti vien fatto di domandarti se la persecuzione potrà esser peggio di tutto questo?», si chiedeva don Milani in “Esperienze pastorali”. Era la fine degli anni Cinquanta, nei giorni dell’onnipotenza, quando l’Italia sembrava la nazione cattolica per eccellenza, e invece la crisi era dietro l’angolo. La crisi non fu certo colpa del Concilio, come qualcuno, prima di papa Francesco, usava dire, anzi. E oggi la sfida per la Chiesa resta sempre la stessa, da due millenni: conservare il nucleo della fede, far parlare Dio non dalle antenne o dagli scranni parlamentari, ma nel cuore degli uomini e delle donne, dei cristiani anonimi e casuali. E dire loro che dopo l’incarnazione, la storia è la grande basilica dove Dio ha lasciato le tracce. Abitarla da uomini, con competenza e non solo con buone intenzioni, è il nostro compito e la nostra vocazione.