Preti su Facebook: la connessione non basta per incontrarsi

Preti, religiosi, religiose, seminaristi su Facebook? Ci sono secondo la ricerca condotta dal Centro di ricerca Cremit dell’Università cattolica e dall’Università di Perugia per conto dell’Associazione Webmaster cattolici italiani (WeCa), con strategie comunicative poco omogenee e molto varie. Hanno un profilo Facebook il 17,9% dei diocesani, il 20,4% dei religiosi, il 59,7% dei seminaristi, il 9,3% delle religiose. I seminaristi risultano essere anche i più attivi: il 20,3% pubblica in bacheca un post al giorno o al massimo ogni due giorni contro il 7,6% delle religiose, il 14,3% dei diocesani e il 18,3% dei religiosi.

“La Rete è una di quelle periferie che Papa Francesco ci invita ad abitare”. È con questo auspicio che monsignor Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico generale dell’Università Cattolica, ha aperto questa mattina, nella sede milanese dell’ateneo, il convegno “Churchbook. Tra social network e pastorale”. Una giornata di confronto e riflessione durante la quale sono stati presentati i risultati della ricerca, che si è concentrata in particolare sull’uso di Facebook da parte di sacerdoti, religiosi e seminaristi, commissionata da WeCa. “Fin dalla sua fondazione nel 2003 WeCa – ha spiegato il presidente dell’associazione, Giovanni Silvestri – si è proposta l’obiettivo di formare gli operatori pastorali della comunicazione, ma per farlo abbiamo sentito l’esigenza di contenuti scientifici che venissero dall’esterno”. Nacque così la prima ricerca “Parrocchia e Internet” nel 2007-2008 e ora questa seconda analisi che, ha proseguito Silvestri, “non può essere solo un esercizio accademico, ma un modo per affrontare le preoccupazioni che riguardano le nostre comunità”.
Gli usi di Facebook sono molto vari, dice la ricerca: può diventare un pulpito, perché molti preti la usano per “farsi ascoltare”, oppure come luogo di interazione, e in questo “le religiose sono più social, hanno una marcia in più”.
“Nel tentare di percorrere gli spazi dei social network in modo consapevole, la comunità cristiana deve chiedersi cosa ha di nuovo e interessante da dire all’uomo oggi? Facendo attenzione a non mettere il come prima del perché”. È questa la provocazione che don Fabio Pasqualetti, docente dell’Università Pontificia Salesiana (Ups), ha rilanciato ai partecipanti al convegno. “Un discorso sui social network e l’azione pastorale – ha proseguito Pasqualetti- non può prescindere quindi da un discorso d’impegno sociale e politico dell’intera comunità cristiana per costruire una presenza innovativa e coerente nella vita di ogni giorno. Recuperando il senso della responsabilità sociale e il gusto di essere coscienza critica della società”. Un tema quello della centralità della comunità emerso più volte durante i lavori. “La crisi economica – ha spiegato Ambrogio Santambrogio, dell’Università di Perugia – ha disgregato il tessuto sociale, la sfida per la Chiesa è ricomporla anche in rete”. Per farlo, secondo Pier Marco Aroldi, dell’Università Cattolica, è però necessario aprirsi all’altro, alle periferie, evitando il rischio, insito nei social, di “perdere l’alterità chiudendosi in gruppi autoreferenziali”.

“La connessione da sola non è garanzia di incontro”. Don Ivan Maffeis, vice direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Cei, commenta così al Sir i risultati della ricerca “Churchbook. Tra social network e pastorale” presentata quest’oggi all’Università cattolica di Milano. “Come nella parabola del Buon Samaritano – prosegue don Maffeis – noi possiamo percorrere queste autostrade digitali senza farci prossimo. Per questo la Chiesa è chiamata ad una conversione e il web ci provoca a farlo”. “Per Facebook e il mondo digitale – conclude don Maffeis – vale il principio del Cortile dei gentili, uno spazio in cui, pur accettandone le regole, siamo chiamati non ad una generica presenza ma ad una testimonianza di fede. Una presenza che ci chiama a educare ed educarci”.