Il caso Yara tra laboratori e avvocati

Dal punto di vista tecnico, l’inchiesta sull’uccisione di Yara Gambirasio indica un percorso non obbligatoriamente rettilineo. Che il Dna costituisca un elemento pesante sulle spalle di Massimo Bossetti, il muratore in carcere in quanto fortemente sospettato dell’atroce delitto, non c’è dubbio. Tuttavia la difesa ha più spazio di quanto si possa immaginare. Prematuro approfondire il concetto, tuttavia le sentenze di primo e secondo grado, nell’eventualità della condanna, non potrebbero limitarsi a giudicare l’ipotetico imputato – che nega – colpevole. Le motivazioni infatti richiedono il movente e soprattutto la ricostruzione dell’omicidio. Perciò il Dna, rinvenuto su un indumento intimo della povera ragazzina, non svela automaticamente l’identità dell’assassino. E infatti gli inquirenti sono evidentemente alla ricerca di altri indizi, di natura scientifica, per collegare Bossetti e il suo furgoncino e il suo pc e il suo cellulare, per esempio, alla vittima.
L’opinione pubblica stia dunque in guardia, tenendo a mente che, in un caso giudiziario, la sola sede deputata a trarre conclusioni resta l’aula del processo. Al dibattimento si mettono le carte in tavola. Quelle vere. La fase attuale delle indagini, invece, è inevitabilmente manipolata dai salotti televisivi e, seppur in misura inferiore, da molti resoconti giornalistici. E per i media è più semplice e conveniente costruire un mostro, tanto più che non costruire un mostro ma colpevolizzare l’imputato è pure l’obiettivo dell’accusa. La recente fuga di notizie circa il presunto ritrovamento di peli di Bossetti su Yara, smentita tempestivamente dalla Procura e rivelatasi illusoria per i giustizialisti di professione, la dice lunga.
Bossetti s’è avvalso della facoltà di non rispondere dinanzi al pubblico ministero. Al Gip, al contrario, ha reso la sua versione di totale estraneità. Successivamente i suoi legali avevano preannunciato un’istanza di scarcerazione al Tribunale del Riesame, cambiando idea con la spiegazione che proveranno l’innocenza del loro cliente al processo. Questa strategia non convince qualche osservatore. Il collegio d’avvocati nominato dall’indiziato comprende Claudio Salvagni, del foro di Como, e il legale d’ufficio di turno al momento dell’arresto, Silvia Gazzetti. Una scelta sorprendente, senza nulla togliere al valore dei due professionisti, che peraltro non risultano specialisti. Strano perché, all’apparenza, un processo del genere dovrebbe favorire l’offerta di prestazione piuttosto che la richiesta. Per l’enorme visibilità, ma non solo. Si tratta di un caso in cui la difesa ha ben poco da perdere, per ovvi motivi. Eppure, come s’è detto, lo spazio c’è.

Invece, ignorati, per esempio, gli studi della piazza locale. Si dice che gli avvocati bergamaschi entrati nella rosa dei candidati abbiano declinato per motivi d’etica, dato il reato odioso. E si dice che un grosso studio torinese si sia fatto avanti, senza formalizzarsi per quanto riguarda l’aspetto economico. Scartato. Però questo è un processo da numeri uno, col traguardo da fissarsi in Cassazione, dove il lato tecnico può prevalere se la difesa avrà saputo costruire validi presupposti in Corte d’assise e in Corte d’assise d’appello. Campi di gioco, questi ultimi, pressoché proibitivi, in un caso come questo, per la presenza delle giurie popolari. Prima o poi scenderanno dunque in pista luminari tipo Franco Coppi o Giulia Bongiorno?