Cattolici, politica e affari

Mi sono riletto in questi giorni un intervento di don Giuseppe Dossetti agli amici di Bailamme, una rivista nata, alla fine degli anni ottanta, attorno a Giovanni Bianchi. Con molto lucidità, il padre Costituente e l’uomo del Concilio, sosteneva che una condizione per un politico che si dichiara cattolico è la gratuità, la non professionalità dell’impegno. Dove questa incomincia cessa anche la parvenza di una missione e la possibilità stessa di avere realmente qualcosa da fare. Secondo Dossetti, sono allora possibili tutte le degenerazioni. Non si può sostenere una compatibilità di principio tra esperienza di fede e politica, né una incompatibilità assoluta; ci può essere invece un servizio episodico, più o meno lungo, ma sempre limitato nell’arco dell’esistenza. La realtà dei politici di professione, che sono tali da trenta o quarant’anni, credo che non la si possa ammettere. Non si tratta di una ragione moralistica, ma di un principio. Dio, sostiene ancora Dossetti, «non può volere che noi siamo immersi sino a questo punto nel contingente. Dio ha un altro disegno su ciascuno di noi, qualunque sia la nostra attività. Su certe “indispensabilità” così protratte io non credo, lo dico con molta sicurezza. È un servizio che in un certo momento può esserci chiesto, purché noi siamo ben convinti che il servizio deve poi durare poco».

La lettura del testo di don Giuseppe mi è tornata in mente in ordine alle vicende che, nei mesi scorsi, hanno visto coinvolto, per la pesante accusa di corruzione e associazione a delinquere, anche alcuni esponenti di rilievo del mondo cattolico.
Nel pieno del ciclone mediatico più volte mi è stato chiesta la mia opinione al riguardo. Ho sempre risposto che, a mio avviso, la questione era teologica prima ancora che politica. Quando in nome dell’ “evento Cristo” si mette in subordine la morale, si rischia la separazione della fede con l’etica. Tutto questo giustifica, anche in nome di un cristianesimo d’attacco, una certa “elasticità” nei comportamenti politici ed economici. Si aggiunga poi una visione negativa del mondo, un giudizio severo sul dialogo con la modernità, una logica da assedio che giustifica la necessità di costituirsi come lobby e l’esito è sotto gli occhi. Di fatto proprio un sedicente cattolicesimo, farisaico e di facciata, ha favorito una deriva secolaristica. A qualcuno darà fastidio ma non possiamo ignorare che tanti ecclesiastici e laici – per non dire degli “atei devoti” – che si sono arrogati negli ultimi decenni il diritto di guida e si rappresentanza del cattolicesimo “integrale”, hanno fortemente contribuito al secolarismo e all’indebolimento della profezia e del lievito cristiano. Il laicismo è cresciuto in proporzione e come risposta al clericalismo e all’integralismo che si sono spesso dimostrati fasulli e strumentali a interessi personali e di potere.

Buona cosa dunque il ritorno dei cattolici all’impegno politico. Ed è un buon segno che lo si reclami da più parti. È urgente però elaborare un corretto metodo politico. Se manca, il rischio è di ricadere, pari pari, negli errori recenti. Metodo che, a mio avviso, deve aver chiaro, in modo inequivocabile, il valore della laicità della politica e il senso della mediazione. Per far questo, occorre costruire strumenti culturali adeguati e luoghi di incontro, dibattito ed elaborazione che, attualmente, non vedo molto presenti nella comunità cristiana. E poi vedo l’urgenza, a cinquant’anni dal Concilio!, di “abbattere i bastioni” e mescolare il fermento cristiano alla buona pasta della società umana per costruire non tanto una cristianità quanto una città dell’uomo degna dell’uomo. Nella città plurale, una Chiesa che entra pacificamente nell’agorà solo perché ha cura e passione per l’umano e cristiani che, laicamente, partecipano alla costruzione della città di tutti. Con competenza e non solo con buone intenzioni. Senza paure o remore, perché, in attesa del Regno, nel destino del mondo è inscritto il destino dei credenti.