Neve Shalom Wahat al-Salam: vivere la pace in tempo di guerra

Un articolo di Irinnews.org, sito d’informazione delle Nazioni Unite su questioni umanitarie, racconta l’esperienza del villaggio di Neve Shalom Wahat al-Salam: vivere la pace in tempo di guerra.

Le sessanta famiglie sono determinate a non dividersi anche nelle circostanze più estreme; il cartello che indica un rifugio antiaereo è scritto in tre lingue – inglese, arabo ed ebraico.

I residenti del villaggio di Neve Shalom Wahat al-Salam (“Oasi di Pace” in ebraico e arabo), che sorge su una collina vicino al confine con la Cisgiordania equidistante da Tel Aviv e da Gerusalemme, scelgono di vivere fianco a fianco nell’unica vera comunità mista in Israele.

Le 30 famiglie ebree e le 30 famiglie palestinesi di cittadinanza israeliana hanno deciso infatti di non lasciare che le attuali ostilità portino vicino contro vicino. «Questo intensificarsi della violenza in realtà davvero unisce il Villaggio», ha dichiarato Bob Mark, un ebreo israeliano che ha insegnato alla scuola primaria di Neve Shalom per 23 anni. «Troverete i membri del Villaggio che dimostrano insieme», ha aggiunto. Mentre i residenti hanno opinioni diverse sulla soluzione ai mali del Paese, sono tutti d’accordo sul fatto che bisogna fermare le uccisioni.
Il villaggio cooperativo, nato alla fine del 1970, è un’anomalia in un Paese nel quale anche il piccolo numero di città e paesi tecnicamente misti tendono ad essere in gran parte realtà segregate, con i cittadini ebrei e i palestinesi di Israele (comunemente chiamati “arabi israeliani”) che frequentano scuole separate. La coesistenza qui, invece, è la vita quotidiana; le decisioni vengono prese collettivamente, i bambini studiano in arabo e in ebraico e tutti gli aspiranti residenti sono tenuti a frequentare un apposito corso di formazione sulla risoluzione dei conflitti.

Mantenere lo spirito di solidarietà è reso più difficile dalle sirene e dai rumori delle bombe che interrompono la quiete della piccola comunità. Dal rapimento di metà giugno e dall’uccisione dei tre adolescenti israeliani, seguiti dalla uccisione presunta per vendetta di un adolescente palestinese di Gerusalemme, la violenza è cresciuta in tutto Israele e nei Territori Palestinesi Occupati. Nell’assedio in corso, in due settimane, 718 palestinesi sono stati uccisi nella Striscia di Gaza – perlopiù civili – mentre almeno 34 israeliani sono morti – tutti soldati eccetto due.

A volte il Villaggio sprofonda in qualcosa che si avvicina a un senso collettivo di depressione, interrotto solo dalle proteste collettive. Di solito, durante il mese sacro per i musulmani del Ramadan, nel  villaggio si interrompe il digiuno e si mangia tutti insieme una volta alla settimana. Quest’anno, nessuno si é sentito di farlo.

L’araba israeliana Rita Boulos è arrivata a Neve Shalom da Gerusalemme nel 1989, spinta in gran parte dalla prima Intifada del 1987-1991, quando i palestinesi insorsero con violenza contro l’occupazione israeliana.

“Volevo fare qualcosa”, spiega, “per trasformare in realtà le parole e lo stile di vita di cui parlavo… e volevo crescere i miei figli in un modo diverso, in un ambiente di pace”. Si indigna e sente con frustrazione il fatto che la pace ancora manca nel Paese. “Questa guerra è così brutale che non riesco più a respirare”, dice. “È duro per noi vedere come brutalmente uccidono la nostra gente [i palestinesi]. Siamo lo stesso popolo [palestinesi in Israele e a Gaza]”.

In controtendenza

Neve Shalom non è l’unico luogo a sperimentare la convivenza. Dichter, giustamente chiamato Shalom, è il direttore esecutivo di “Hand in hand” [“Mano nella mano”], un’organizzazione che gestisce scuole pubbliche bilingui a Gerusalemme, in Galilea e Wadi Ara, così come asili ad Haifa e a Jaffa, tutte aree all’interno dei confini di Israele del 1967.

Per l’autunno si sono iscritti circa 1.200 studenti, e anche se durante l’estate la scuola è chiusa, Dichter spiega che le comunità che sono cresciute intorno a queste scuole sono diventate un punto di riferimento per quanti cercano di costruire ponti.

Proprio come gruppi di estremisti hanno camminato per le strade di Gerusalemme minacciando le comunità rivali, i membri di “Hand in Hand” son scesi insieme per le strade, marciando pacificamente dalla scuola locale al centro della città.
Le marce sono un modo per gli ebrei e i palestinesi per “rivendicare lo spazio pubblico insieme”, ha detto Dichter. “Il fatto che centinaia di persone stavano marciando ha reso chiaro alle tante persone che hanno visto, come pure a noi stessi, che non siamo soli nell’opporci alla guerra, nell’opporci alla violenza, e che stiamo mettendo in pratica il camminare insieme nella sfera pubblica”.

Jamal Siksik, che risiede a Jaffa da molto tempo  ed é membro del consiglio dei genitori del piú recente asilo nido creato dall’associazione “Hand in Hand”, afferma che sente di fare la cosa giusta mandando suo figlio di quattro anni e mezzo in questo asilo.  Jamal crede che lo spirito della scuola non sia stato danneggiato dalla guerra. Piuttosto, egli osserva che “la coesistenza è viva e vegeta a Jaffa nonostante la guerra e i tentativi da parte di persone esterne che vogliono dimostrare il contrario.” L’asilo conta già piú iscrtti che posti disponibili, e giá si prevede di aprire anche una scuola elementare.

Ma gli esperti avvertono che l’atmosfera polarizzata che c’è in Israele danneggia iniziative di questo tipo. Sammy Smooha, professore di sociologia presso l’Università di Haifa ed esperto di relazioni tra ebrei e arabi israeliani, ha affermato che il semplice rispetto della cultura di ciascuno non è sufficiente.

“Durante questa guerra, la distanza tra arabi ed ebrei sta aumentando, e non importa se conosci l’arabo o degli arabi: c’è una linea di demarcazione ed è il nazionalismo e la fedeltà alla tua persona e nazione, e questo viene prima di tutto per entrambe le parti… [Modelli come quello di Neve Shalom] dovrebbero essere incoraggiati, ma dobbiamo anche essere realistici circa l’impatto che esercitano”, ha aggiunto, allontanandosi dal telefono per alcuni minuti dopo l’inizio della sirena di allarme per un raid aereo.
Smooha considera la guerra in corso come prova della difficoltà di colmare la distanza tra i due popoli. “Non si possono scollegare le scuole bilingui o un posto come Neve Shalom dal loro contesto, che comprende diversi livelli e ambienti, e il conflitto israelo-palestinese ne è una parte importante ed essenziale”.

Ottimismo in calo?

In effetti, non tutti coloro che credono nella convivenza mantengono ancora il loro ottimismo. Il direttore generale di Neve Shalom, l’arabo israeliano Eyas Shbeta, sta seriamente pensando di lasciare il villaggio e il Paese dopo 34 anni. Sua moglie ha un passaporto europeo, e Eyas non è più sicuro che la lotta si possa ancora vincere. “Quest’ultimo mese ha cancellato tutto il mio ottimismo”, ha detto con franchezza. “Non è la gente del villaggio, è questo paese”.

Con il nuovo clima, teme attacchi razzisti per le strade mentre è fuori dal Villaggio. Si dispera di fronte agli eventi di Gaza e ha perso la fiducia che Neve Shalom possa portare alcun cambiamento. “La cosa peggiore è che non vedo alcuna luce alla fine di questo tunnel”.

Ma sia Dichter di “Hand in Hand” che la maggior parte dei residenti di Neve Shalom sono consapevoli del fatto che la loro sfera di influenza è limitata. Sanno che non possono evitare l’odio che permea gran parte della società israeliana, ma che si può cercare di contrastarlo. Nel 2012, alcuni vandali hanno deturpato la scuola di Neve Shalom con slogan razzisti; il Villaggio ha risposto dipingendo sopra i graffiti immagini allegre e luminose.
La pace in Medio Oriente non sarà fatta a Neve Shalom, ma i residenti non hanno mai pensato che lo sarebbe stata. Rita Boulos ammette di avere dei dubbi, ma crede di dover continuare. “Non posso dire di essere ottimista o pessimista, ma sono determinata. Sono al cento per cento sicura che non ci sia altra via”, spiega. “So che non possiamo cambiare il mondo intero… ma possiamo essere un esempio per il nostro popolo che c’è un modo più umano di vivere.”

Per informazioni: www.oasidipace.org

L’articolo in originale: http://www.irinnews.org/report/100397/practicing-peace-in-wartime