«Il dialogo è l’unica vera strada perché la violenza e l’odio non prendano il sopravvento. Il Papa ha dato l’esempio con la preghiera per la pace insieme al presidente israeliano Shimon Peres e a quello palestinese Mahmoud Abbas in Vaticano l’8 giugno. La successiva ripresa del conflitto tra israeliani e palestinesi è paradossalmente il segno della bontà di quell’iniziativa: il male, anzi il Maligno, agisce in maniera rabbiosa quando qualcuno imbocca la strada del bene, della pace». Don Antonio Rizzolo, sacerdote paolino, direttore del mensile Jesus e del settimanale Credere e co-direttore di Famiglia Cristiana, partendo dalle parole del Santo Padre: “la preghiera ci aiuta a non lasciarci vincere dal male e a non rassegnarci che la violenza e l’odio prendano il sopravvento sul dialogo e sulla riconciliazione”, sottolinea l’importanza del dialogo interreligioso. «Il dialogo tra le religioni, come ha affermato più volte il Papa, l’amicizia tra persone di diverse religioni è la via concreta che permette di superare la diffidenza e la paura reciproche. Dialogo, però non significa rinunciare alla propria identità o cedere a compromessi sulla fede e sulla morale: non sarebbe un incontro tra persone, ma una finzione. Dialogo significa invece rispetto delle diversità, ascolto reciproco, ricerca di ciò che ci unisce, costruzione della fraternità». A motivo di ciò per il religioso, nato nel 1962 a Bonavigo in provincia di Verona, la costruzione di moschee in Italia, tema controverso e molto dibattuto nel nostro Paese, «non si può vietare. La mancanza di reciprocità nei confronti dei cristiani che spesso si constata nei Paesi islamici, non è un motivo sufficiente per negare il diritto alla libertà religiosa. Si tratta invece di esigere questa reciprocità nelle sedi opportune, soprattutto a livello diplomatico. In ogni caso, in quanto cristiani, siamo chiamati a essere giusti, a fare il primo passo».
“Siamo entrati nella Terza Guerra Mondiale, solo che si combatte a pezzetti, a capitoli” ha dichiarato Papa Francesco ai giornalisti durante il volo di ritorno dal viaggio apostolico in Corea del Sud, riferendosi alle crisi internazionali in corso. “Dove c’è un’aggressione ingiusta, posso solo dire che è lecito fermare l’aggressore ingiusto” ha aggiunto il Pontefice riguardo alla situazione in Iraq. Don Rizzolo concorda con l’affermazione del Santo Padre?
«Concordo con l’affermazione del Papa, che però va letta per intero. «È lecito fermare l’aggressore ingiusto», ha risposto Francesco ai giornalisti, ma ha aggiunto: “Sottolineo il verbo fermare, non dico bombardare, fare guerra, ma fermarlo”. In altre parole, le bombe (che ammazzano “l’innocente con il colpevole”) e in generale la guerra non possono essere giustificate come mezzo di soluzione dei conflitti. Perché? Prima di tutto perché questo modo di fermare l’aggressore ingiusto, ha detto il Papa, è stato spesso usato come scusa per una vera guerra di conquista. Inoltre, “una sola nazione non può giudicare come si ferma un aggressore ingiusto”. Il luogo giusto in cui discutere sono le Nazioni Unite. Francesco è in linea con il recente magistero della Chiesa. Da Benedetto XV che dichiarò la prima guerra mondiale una “inutile strage”, a Pio XII che disse: “Tutto è perduto con la guerra”, fino a Giovanni Paolo II con il suo “mai più la guerra”. Tutto questo però non significa che non ci si debba, in casi estremi, servire delle armi: per legittima difesa o per “ingerenza umanitaria”, cioè per disarmare chi vuole uccidere, ma sempre sotto l’egida dell’Onu».
Se osserviamo una cartina geografica sono svariati i focolai di guerra nel mondo: Medio Oriente, Ucraina, Iraq, Siria, Nigeria, il Mediterraneo che s’incontra e si scontra con il Mondo Arabo. Come richiamare alla responsabilità la comunità internazionale?
«Ognuno di noi, secondo la propria condizione, dovrebbe impegnarsi a costruire la pace, evitando di fomentare l’odio, le incomprensioni, la vendetta. Tutti siamo responsabili. Un ruolo importante l’hanno comunque i mezzi di informazione, che dovrebbero aiutare a capire la complessità delle situazioni, testimoniando nel contempo l’orrore della guerra. Chi riveste un ruolo politico, gli opinion leader, le diverse diplomazie dovrebbero inoltre rendersi conto di quanto pesino le loro parole sull’opinione pubblica e sulle scelte che la comunità internazionale è chiamata a fare. Purtroppo spesso prevalgono interessi di parte, ideologici ed economici, rispetto al bene comune e alla pace. Per questo le Nazioni Unite, nonostante la carta che ha costituito questo organismo e nonostante quanto è stato elaborato dal diritto internazionale, non riescono a funzionare veramente. I veti incrociati portano spesso all’immobilismo. Un ruolo importante di richiamo ai valori della pace, della giustizia, della riconciliazione e della solidarietà lo sta sostenendo l’attuale Papa, così come hanno già fatto i suoi predecessori. La sua parola è di grande stimolo, il suo esempio ha un grande peso, come è emerso ad esempio nella veglia per la pace in Siria del 7 settembre 2013».
La costruzione di moschee in Italia è un tema che fa discutere l’intera società. Cosa ne pensa?
«Il punto di partenza è quello dei diritti e dei doveri. Gli immigrati che vivono sul nostro territorio hanno il dovere di sottostare alle nostre leggi, ma hanno anche una serie di diritti in quanto persone. Tra questi diritti c’è quello della libertà religiosa: ciascuno deve poter professare la propria fede e manifestarla nelle azioni di culto. Ovviamente, secondo quanto prevede la nostra Costituzione (articolo 19). La costruzione di moschee, in base alle reali necessità, si colloca in questo contesto del diritto alla libertà di culto. Non si può vietare. La mancanza di reciprocità nei confronti dei cristiani che spesso si constata nei Paesi islamici non è un motivo sufficiente per negare il diritto alla libertà religiosa. Si tratta invece di esigere questa reciprocità nelle sedi opportune, soprattutto a livello diplomatico. In ogni caso, in quanto cristiani, siamo chiamati a essere giusti, a fare il primo passo».
La recente missione in Corea del Sud di Bergoglio ha spalancato sull’Asia una porta destinata a restare aperta in modo permanente visto che il Pontefice oltre ai previsti viaggi nello Sri Lanka e nelle Filippine nel gennaio 2015, si è detto pronto a recarsi anche in Cina e in Kurdistan?
«L’Asia è nel cuore di Papa Francesco. L’ha fatto capire fin dall’inizio del pontificato e l’ha manifestato con il suo recente viaggio in Corea e con gli altri che ha già programmato. Forse, in quanto gesuita, questo è nel suo Dna: pensiamo ai grandi missionari della Compagnia di Gesù come san Francesco Saverio e Matteo Ricci. Ma ci sono anche altri motivi. Il primo è l’importanza sempre più grande del continente asiatico a livello mondiale, non solo dal punto di vista economico. Il secondo ma fondamentale, è il desiderio di portare sempre più il Vangelo a tutta l’umanità. Oggi l’Asia, dove i cristiani sono una minoranza, è una grande terra di missione. Non si tratta però di fare proselitismo o di innestare un corpo estraneo nei Paesi dell’Oriente. Come ha detto Francesco ai giovani coreani, essi sono chiamati a essere allo stesso tempo buoni cristiani e buoni cittadini: “Come giovani asiatici voi vedete e amate dal di dentro tutto ciò che è bello, nobile e vero nelle vostre culture e tradizioni. Al tempo stesso, come cristiani, sapete anche che il Vangelo ha la forza di purificare, elevare e perfezionare questo patrimonio”. I cristiani devono perciò imparare a “discernere ciò che è incompatibile con la fede cattolica, ciò che è contrario alla vita di grazia innestata col Battesimo, e quali aspetti della cultura contemporanea sono peccaminosi, corrotti e conducono alla morte”».
Mons. Amel Shamoun Nona, Arcivescovo cattolico caldeo di Mosul in Iraq, ha dichiarato che per i misfatti che stanno compiendo i miliziani dell’Isis, si può parlare di “crimine contro l’umanità” e di “pulizia etnico-religiosa”. Andrea Riccardi in un editoriale su Famiglia Cristiana ha scritto che “da parte dell’Italia, che ha in questi mesi la presidenza europea, c’è da aspettarsi maggiore incisività”. È d’accordo?
«La tragedia che sta avvenendo in Iraq è troppo grave perché si resti con le mani in mano. Eppure senza i forti appelli di papa Francesco avrebbe rischiato di rimanere uno dei tanti problemi che ci sfiorano solamente, immersi come siamo da tante notizie e da tanti problemi. L’Italia, che ora è alla presidenza dell’Europa, dovrebbe davvero essere più incisiva, richiamando alla solidarietà con i profughi, sollecitando l’Unione europea a una linea comune, facendosi parte attiva perché si taglino, come ha scritto Andrea Riccardi, “le connessioni internazionali del mondo del califfato”. Dietro, infatti, non c’è solo un conflitto interno al mondo islamico, tra sunniti e sciiti, di cui le minoranze come quella cristiana fanno le spese, ci sono anche gli interessi economici delle grandi potenze e la produzione di armi».
“Metto davanti a lei le lacrime, le sofferenze e le grida accorate di disperazione dei cristiani e di altre minoranze religiose dell’amata terra dell’Iraq” ha scritto Papa Francesco in un messaggio al Segretario Generale dell’Onu Ban Ki-moon. L’integralismo islamico sta schiacciando le minoranze, come fermare questo massacro e l’esodo biblico di profughi cristiani?
«Il Papa nella sua lettera al segretario generale dell’Onu indica già alcune strade da percorrere. Innanzitutto incoraggia “tutti gli organi competenti delle Nazioni Unite, in particolare quelli responsabili per la sicurezza, la pace, il diritto umanitario e l’assistenza ai rifugiati, a continuare i loro sforzi in conformità con il Preambolo e gli Articoli pertinenti della Carta delle Nazioni Unite”. In secondo luogo, fa appello alle coscienze perché si mettano in atto “azioni concrete di solidarietà, per proteggere quanti sono colpiti o minacciati dalla violenza e per assicurare l’assistenza necessaria e urgente alle tante persone sfollate, come anche il loro ritorno sicuro alle loro città e alle loro case”. Infine, chiede con forza alla comunità internazionale, “in particolare attraverso le norme e i meccanismi del diritto internazionale, di fare tutto ciò che le è possibile per fermare e prevenire ulteriori violenze sistematiche contro le minoranze etniche e religiose”. Monsignor Silvano Maria Tomasi, osservatore permanente della Santa Sede presso l’Onu, da parte sua, ha precisato come l’articolo 42 della Carta delle Nazioni Unite dice che la Comunità internazionale ha la responsabilità di proteggere, anche con la forza, quello che non può essere fatto dalle autorità locali, dopo che si sono tentate tutte le vie del diritto, del dialogo, del negoziato. Aggiungo che la preghiera per la pace, soprattutto in favore dei cristiani perseguitati, è fondamentale. Anzi è il mezzo che tutti abbiamo a disposizione, come ci hanno ricordato i nostri vescovi lo scorso 15 agosto».
In un editoriale sul mensile Jesus, commentando il primo anno di pontificato di Jorge Mario Bergoglio, ha scritto che la Chiesa con Papa Francesco guarda al futuro «la sensazione è che siano stati fatti enormi passi avanti nella Chiesa, riducendo quel ritardo di 200 anni di cui parlava il Cardinale Martini». Desidera chiarire la Sua riflessione?
«Ho parlato, in quell’editoriale che presentava la nuova impostazione grafica e contenutistica di Jesus, di una sensazione che molti hanno avvertito dopo un anno di pontificato di Bergoglio. Non era però un giudizio critico sui predecessori. Ricordiamo qual era il clima che si respirava prima della rinuncia di Benedetto XVI: la Chiesa sembrava una cittadella assediata, ferita al suo stesso interno da scandali come quello della pedofilia e di Vatileaks. Francesco ha portato un’aria nuova con la sua semplicità e spontaneità, con il suo linguaggio diretto e amichevole. In tanti si è accesa una luce di speranza, si è rinnovato l’entusiasmo per il Vangelo, la Chiesa ha riacquistato credibilità. Di questo non possiamo che ringraziare il Signore. Si è così ridotto il ritardo di 200 anni? Non lo so, ma bisogna ricordare che quella di Martini era un’immagine che aveva lo scopo di stimolare la Chiesa a riprendere coraggio, per un rinnovato dialogo con gli uomini e le donne del nostro tempo. Perché il Vangelo di Cristo va vissuto e testimoniato oggi».
A quale tipo di lettore si rivolge la rivista settimanale Credere nata poco più di un anno fa e della quale è direttore?
«La rivista ha un taglio popolare, sia nella scelta degli articoli sia nel linguaggio semplice, alla portata di tutti. Si rivolge prima di tutto ai cattolici praticanti, per incoraggiarli a una fede sempre più viva, autentica e gioiosa, per ricordare loro che c’è ancora tanto bene nel mondo, che l’amore è più forte del male, che non sono soli nel loro impegno quotidiano di vita cristiana. Abbiamo presenti anche tutti i cattolici che non frequentano le chiese, ma hanno nel cuore il desiderio di amare di più il Signore, vivendo il Vangelo giorno per giorno. E infine non trascuriamo tutti coloro che, pur lontani dalla fede, conservano una sorta di nostalgia di Dio. Tutti troveranno testimonianze di fede vissuta, approfondimenti chiari e sintetici sul cristianesimo (spesso l’ignoranza in questo ambito è davvero grossolana) e un invito a provare la gioia che viene dall’incontro con Cristo».