Riina si lamenta: non abbiamo più giovani. Anche la mafia invecchia

Prudenza. Parecchia prudenza. È quella che ci vuole nel prendere in considerazione e nel commentare i contenuti delle trascrizioni delle intercettazioni, compiute dagli investigatori, dei colloqui tra il boss dei boss Totò Riina e un altro mafioso di rango durante l’ora di libertà nel carcere di Opera. Perché prudenza? Lo hanno già scritto in tanti: il padrino corleonese è consapevole che mentre parla qualcuno ascolta e registra. Il pericolo che voglia lanciare dei messaggi, che intenda fare dei proclami c’è tutto. Ma, tra le tante affermazioni, ricostruzioni e informazioni più o meno inedite, appunto più o meno autentiche, c’è una riflessione di Riina che può, anzi deve essere presa in considerazione e alla quale, invece, nei giorni successivi alla pubblicazione delle trascrizioni, non è stato dato rilevanza nei commenti dei mass media. Dice il capomafia che il ricambio generazionale dentro Cosa Nostra non è avvenuto, lamenta la “mancanza” rispetto al passato di un numero adeguato di giovani pronti a votarsi alla causa della mafia.
La sua affermazione su questo argomento merita un approfondimento: conferma che un cammino sul versante della legalità e della lotta alla mafia e alla mafiosità in questi anni è stato compiuto.
Ed è anche possibile stabilire alcune date per segnare l’inizio di quella che può considerarsi una vera e propria palingenesi: le stragi del ‘92 con le uccisioni dei giudici Falcone e Borsellino; l’ “anatema” di Giovanni Paolo II nella valle dei Templi nel ‘93 e, sempre nello stesso anno, l’omicidio di Padre Pino Puglisi, coraggioso parroco del quartiere palermitano Brancaccio. La cosiddetta società civile sembra svegliarsi dopo anni di diffuso silenzio, di più o meno consapevole indifferenza rispetto ad un fenomeno la cui pericolosità era ed è a tutti nota. Si intensifica l’azione investigativa e repressiva ma soprattutto cresce l’impegno sul fronte culturale. Di mafia, di cultura della legalità si comincia a parlare sempre più. Nelle scuole, nelle università, nelle parrocchie, nei circoli culturali. I ragazzi si organizzano: scendono in piazza con il volto scoperto e le idee sempre più chiare. Ai dibattiti, per ascoltare magistrati, funzionari di Polizia o ufficiali dei Carabinieri, esperti di mafia e parenti di vittime vanno sempre più numerosi. Intervengono, si confrontano senza reticenze. È la conferma che l’impegno sul fronte educativo è quello più efficace per scardinare un sistema fatto di violenza, prepotenza, clientelismo, corruzione e familismo.
Lo aveva capito benissimo il Beato Puglisi. Lo aveva capito da sacerdote impegnato in una pastorale ordinaria ma molto incisiva: partendo dai più piccoli del quartiere ad alto rischio della periferia palermitana che il cardinale Salvatore Pappalardo gli aveva affidato conoscendo la sua determinazione e il forte spessore spirituale. Lo fa senza cercare riflettori, senza inseguire popolarità, senza promuovere protagonismi. Giorno dopo giorno. Strada per strada. Palazzo per palazzo. I tracotanti signorotti di Brancaccio, i pericolosissimi fratelli Graviano lo intuiscono e procedono secondo la loro maniera.
Ma il seme non è morto. I frutti arrivano. E sono tanti, in ogni angolo della Sicilia, del Sud. A Palermo è ormai una realtà consolidata quella dei ragazzi di “Addiopizzo”. Iniziano in sordina e creano un movimento ora noto in Italia e anche all’estero, schierandosi concretamente a fianco dei commercianti e degli imprenditori che non vogliono piegarsi, nella terra di Libero Grassi, alla logica del “pizzo”. E ancora, l’impegno di “Libera” e del suo fondatore don Luigi Ciotti, che lo stesso Riina paragona a Padre Puglisi e verso il quale l’intimidazione, come abbiamo letto in questi giorni, non è per niente velata. Testimonianze autentiche di fede e di vita civile. Testimonianze che i giovani hanno colto, consapevoli che la mafiosità si combatte iniziando dal diritto alla scuola, cominciando dai bambini, perfino muovendo dall’insegnamento della buona educazione che ai mafiosi fa tanta paura, talvolta più del carcere.
Successo dunque conquistato? Giovani e mafia, rapporto definitivamente rotto? Adagio. Adagio. Un percorso è stato segnato. Ma cantare vittoria non è certo possibile. La mafia c’è ed è ancora forte. Non bisogna abbassare la guardia. E in un periodo di crisi, ormai troppo lungo, resistere ai richiami dei guadagni facili per attività illegali è sempre più difficile. Non dimentichiamo che sono ancora molti, comunque, i giovani, in particolare nel Mezzogiorno, reclutati in quartieri ad alta disoccupazione, in cui vige da sempre la regola del più forte, della violenza. Provengono da famiglie disagiate, spesso hanno abbandonato la scuola. Giovani non di rado affascinati dal carisma dei leader mafiosi, in particolare di quelli latitanti, i quali ai loro occhi appaiono più forti dello Stato che è incapace di catturarli. Per questo occorre insistere sul fronte culturale ed educativo – Chiese del Sud e scuola in prima linea – e occorrono urgentemente segnali dalla politica sul fronte della promozione sociale e occupazionale. Insomma, nessuno può sentirsi non chiamato in causa. Non deve esserci spazio per apatia o indifferenza. Dobbiamo rafforzare la convinzione che la mafia non è un’alternativa alle carenze dello Stato: la mafia è il male che ruba il futuro e la speranza ai giovani, a tutti noi.